Lo spazio della pagina in Perec






Perec è sempre un piccolo incidente di percorso nella mia vita, qualcosa in cui mi ci imbatto per caso e ogni volta si rivela una scoperta incredibile.

Chi mi conosce sa bene quanto io ami le riflessioni metaletterarie, quando la letteratura compiace sé stessa contraendosi (o forse dilatandosi) nella propria autoreferenzialità, in un gioco di astrazione che conferma il suo essere un mondo a sé, con la sua concretezza, le sue speculazioni, i suoi giochi linguistici, le sue regole e contro-regole… Così facendo essa si auto-infrange, spezzando la normale parete che si instaura tra il narratore e il lettore, per mostrarsi finalmente dall’interno, senza orpelli o artifici di sorta. Scarnificandosi essa mostra i giochi, gli scherzetti e gli strumenti retorici che usa per convincerci e affabularci. Ecco che allora i personaggi sbucano fuori dalle pagine, dialogano col lettore o lo scrittore, si interrogano sulle dinamiche che percorrono la pratica letteraria, le tecniche che la sostengono, i motivi che la sospingono.

Un’altra cosa che mi ha sempre affascinato a riguardo è anche il fatto che gli scrittori che si danno a riflessioni meta-letterarie spesso e volentieri hanno un approccio per così dire “leggero” alla letteratura. In un certo senso proprio il distacco dagli inganni della finzione letteraria spinge gli scrittori ad abbandonare la pesantezza della retorica per poter abbracciare con leggerezza la propria scrittura. A tal proposito, il titolo della mia tesina di maturità era proprio: “Elogio della leggerezza: riflessioni leggere sulla metaletteratura” [1]
Se immaginiamo quindi di inventare un canone impostato sulla dicotomia metaletteratura – leggerezza, possiamo affermare con certezza che Perec merita a pieno titolo di farvi parte. E ancora una volta me l’ha confermato con il libro sorprendente di cui vi parlerò oggi: Espèces d'espaces (1974).

"L'oggetto di questo libro non è esattamente il vuoto, tratta piuttosto di ciò che c'è intorno ad esso, o al suo dentro. Ma alla fin fine non è che ci sia un granché: il niente, dell'impalpabile, praticamente dell'immateriale: dell'estensione, all'esterno, di ciò che c'è al di fuori di noi, ciò che sta in mezzo a ciò in cui ci muoviamo, l'ambiente circostante, lo spazio d’intorno.
Lo spazio. Non proprio gli spazi infiniti, quelli il cui silenzio, a forza di prolungarsi, finisce per innescare qualcosa che assomiglia alla paura, neanche i già quasi "domestici" spazi interplanetari, intersiderali o intergalattici, ma gli spazi molto più vicini, minori in linea di massima: le città, per esempio, o ancora le campagne o tutt'al più i corridoi della metropolitana, o ancora un giardino pubblico.
Noi viviamo nello spazio, in questi spazi, in queste città, queste campagne, questi corridoi, questi giardini. Ciò ci appare evidente. Può darsi che ciò dovrebbe essere effettivamente evidente. Ma in realtà non lo è affatto e questo va da sé. È reale, evidentemente, e di conseguenza, è verosimilmente razionale. Lo si può toccare. Ci si può finanche lasciare andare con l'immaginazione.
Niente, per esempio, ci impedisce di concepire delle cose che non siano né delle città né delle campagne (né delle periferie), o ancora dei corridoi della metropolitana che siano al tempo stesso dei giardini. Niente ci impedisce neanche di immaginare una metro in piena campagna (ne ho visto persino una in una pubblicità su questo tema ma - come dire? - era una campagna pubblicitaria). Ciò che è certo, in ogni caso, è che a un'epoca senza dubbio troppo lontana affinché qualcuno di noi possa averne serbato un ricordo che sia un minimo preciso, non c'era niente di tutto questo: né corridoi, né giardini, né città, né campagne. Il problema non è neanche sapere come si è arrivati a tutto ciò, ma semplicemente di riconoscere che ci si è arrivati, che si è lì: non c'è uno spazio, un bello spazio, un bello spazio intorno, un bello spazio intorno a noi, ci sono dei piccoli pezzi di spazi, e uno di questi pezzi è un corridoio della metropolitana, e un altro di questi pezzi è un giardino pubblico; [...]
In breve, gli spazi si sono moltiplicati, smembrati, diversificati. Ce ne sono oggi di tutte le taglie e di ogni sorta, per tutti gli usi e tutte le funzioni. Vivere, è passare da uno spazio all'altro, cercando il più possibile di non sbatterci contro."

Oggetto dell’indagine letteraria di Perec è in questo caso lo spazio inteso nelle sue molteplici forme. Con un’analisi allo stesso tempo semiologica e fenomenologica, egli percorre lo spazio in direzione estensiva: da una dimensione di prossimità (vedremo, la pagina) a quella lontana e forse inconcepibile degli spazi siderali. Noi ci occupereremo solo della pagina.

“Lo spazio di un foglio di carta (modello internazionale regolamentato, in uso in tutte le Amministrazioni, in vendita in tutte le cartolerie) misura 623,7 cm2. Bisogna scrivere un po' più di sedici pagine per occupare un metro quadro. Supponendo che il formato medio di un libro sia 21 x 29,7 cm, si potrebbe, smantellando tutte le opere stampate conservate alla Biblioteca Nazionale e stendendo accuratamente le pagine l'una a fianco l'altra, coprire interamente sia l'isola di Sant'Elena sia il lago del Trasimeno.
Si potrebbe calcolare anche il numero di ettari di foreste che ci è voluto per produrre la carta necessaria a stampare le opere di Alexandre Dumas padre che, lo ricordiamo, si è fatto costruire una torre in cui ciascuna pietra portava, scolpito, il titolo di uno dei suoi libri.”

La pagina è il primo spazio che viene in mente al nostro scrittore (forse proprio in quanto scrittore) e anche il primo che il lettore può osservare durante la lettura. Uno spazio creato come gli altri spazi e persino misurabile come gli altri spazi.



In questo passaggio, invece, Perec mette in evidenza il contrasto tra pieni e vuoti che si viene a creare nello spazio della pagina. La carta è lo spazio e l’inchiostro lo abita. “Guardate: sulla carta sono crocefisso coi chiodi delle parole” diceva il poeta Majakovskij.
L’inchiostro riempie lo spazio e lo orienta, piazzando le lettere come degli oggetti sul vuoto del foglio dandogli un ordine preciso. Questo lo avevano ben capito i futuristi, quando ad inizio del Novecento - nel passaggio da una poesia dell’orecchio di stampo simbolista a una poesia dell’occhio di stampo avanguardistico – inventarono le parole in libertà.
Se la tradizione occidentale prevede un’abitudine di lettura da sinistra a destra [2], fatto che porta in sé anche la nozione di orizzontalità e linearità nell’orientamento della pagina, i futuristi nella loro lotta anarchica al sistema vigente vogliono affermare un nuovo linguaggio visuale rovesciando la prospettiva.
A tal proposito particolarmente interessante è il quadro La rivolta” di Luigi Russolo (1911), perché mette in evidenza la nostra concezione di linearità. Se per noi occidentali il corso naturale delle cose è concepibile come una linea immaginaria verso destra (perché, per l’appunto siamo abituati a leggere da sinistra a destra, tanto una pagina quanto un quadro), la rivolta allo status quo non può che andare in direzione contraria, da destra verso sinistra.

Luigi Russolo, La Rivolta (1911)


Sulla falsariga di questo concetto, c’è anche Il ciclista” di Natalia Goncharova (1913), dove si vede un ciclista che va contro-corrente (in questo caso la direzione “corretta” sarebbe data dalla mano all’angolo sinistro della tela).

Natalia Goncharova, Il Ciclista (1913)

Ma per tornare a Perec, mi piace quindi evidenziare come simpaticamente e argutamente egli voglia ricordarci com’è fatto lo spazio della pagina; come su di esso si posino i caratteri tipografici, seguendo un ordine dato per scontato ma ben preciso che è quello che va da sinistra e destra e dall’alto in basso; e come persino nel rapporto tra le pagine si instauri l’ordine fronte-retro. Se ci riflettiamo bene, queste considerazioni portate alle estreme conseguenze potrebbero far nascere pagine assolutamente illeggibili, spazi assolutamente inabitabili per il nostro essere razionale.



Mi ha ricordato anche un passo di “Se una notte d’inverno un viaggiatore” di Calvino:
"Il romanzo che stai leggendo vorrebbe presentarti un mondo corposo, denso, minuzioso. Immerso nella lettura, muovi macchinalmente il tagliacarte nello spessore del volume: a leggere non sei ancora alla fine del primo capitolo, ma a tagliare sei già molto avanti. Ed ecco che, nel momento in cui la tua attenzione è più sospesa, volti il foglio a metà d'una frase decisiva e ti trovi davanti due pagine bianche.
Resti attonito, contemplando quel bianco crudele come una ferita, quasi sperando che sia stato un abbacinamento della tua vista a proiettare una macchia di luce sul libro, dalla quale a poco a poco tornerà ad affiorare il rettangolo zebrato di caratteri d'inchiostro. No, è davvero un candore intatto che regna sulle due facciate che si fronteggiano. Volti ancora pagina e trovi due facciate stampate come si deve. Continui a sfogliare il libro; due pagine bianche s'alternano a due pagine stampate. Bianche; stampate; bianche; stampate: così via fino alla fine. I fogli di stampa sono stati impressi da una parte sola; poi piegati e legati come fossero completi. Ecco che questo romanzo così fittamente intessuto di sensazioni tutt'a un tratto ti si presenta squarciato da voragini senza fondo, come se la pretesa di rendere la pienezza vitale rivelasse il vuoto che c'è sotto. Provi a saltare la lacuna, a riprendere la storia afferrandoti al lembo di prosa che vien dopo, sfrangiato come il margine dei fogli separati dal tagliacarte. Non ti ci ritrovi più: i personaggi sono cambiati, gli ambienti, non capisci di cosa si parla, trovi nomi di persone che non sai chi sono: Hela, Casimir. Ti viene il dubbio che si tratti di un altro libro [...]"

In questo caso a spaventare il lettore è il vuoto della pagina, l’assenza di scrittura. Quando la scrittura ritorna, però, sarà la discontinuità nella narrazione a interrompere definitivamente il piacere della lettura, rendendo il romanzo “squarciato da voragini senza fondo”.
Lo spazio della pagina ha quindi bisogno di parametri precisi affinché affiori il fantastico mondo della letteratura, fatto di parole e di lettere, nient’altro che di parole e di lettere.






[1] In particolare gli esempi trattati nella tesina furono: “Il codice di Perelà” di Palazzeschi, “Se una notte d’inverno un viaggiatore” e “Lezioni americane” di Calvino, “Niebla” di Unamuno e “Le vol d’Icare” di Queneau.
[2] Non è così per esempio nei geroglifici, dove si afferma una scrittura di tipo bustrofedico in cui si alternano i due sensi opposti di destra e sinistra, o ancora nell’alfabeto arabo che si scrive e legge da destra a sinistra. O per parlare dei modi di lettura si potrebbero citare i manga giapponesi che notoriamente vanno cominciati dall’ultima pagina.

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