Stavolta non tratterò delle poesie in particolare
perché voglio spiegarvi un grande insegnamento che mi è stato “dato” nel corso
dei miei studi sui poeti francesi.
Tutti sappiamo quanto le parole abbiano un valore, il loro
potere è di una portata indescrivibile. Lo diceva già Gorgia nell’antichità: le
parole possono curare o tormentare, informare o ingannare, creare o
distruggere. Lo straordinario potere delle parole è a sua volta un mistero, se
solo ci soffermiamo a riflettere sul fatto che esse non sono altro che
composizioni di sillabe, che a loro volta si compongono di lettere, che a loro
volta si compongono di segni. Così per la lingua scritta, così per quella
orale.
Il poeta di cui parliamo oggi è Stéphane Mallarmé (1842 - 1898).
Mallarmé era ossessionato da due cose: gli uccelli e
le lettere.
Sugli uccelli “sorvoliamo”, se mi si permette il gioco
di parole, ma solo per il momento.
Per quanto riguarda le lettere, invece, non posso non
spendere qualche parola.
Il nostro Mallarmé era appassionato di filologia,
insegnava (da francese) la lingua e la letteratura inglese. Nei suoi vari studi
di filologia comparata, si era imbattuto più volte in una questione che lo
incuriosiva particolarmente: l'invenzione dell'alfabeto, dei geroglifici, degli
ideogrammi, delle lettere in generale... Arrivando nel 1866 ad interessarsi persino
di alchimia e di Kabbala (la scienza mistica ebraica che studia i nomi di Dio e
li usa come mezzo di contemplazione dell’essenza divina).
A questo proposito Anatole France dirà: “per Mallarmé,
come per gli gnostici e i cabbalisti, tutto nella natura visibile è segno e
corrispondenza".
Dobbiamo allora cercare di immaginarcelo quest’uomo,
questo filologo, questo poeta che accarezza le parole, le pronuncia, le
scandisce, le pensa più di una volta prima di metterle penna su carta,
assaporandole, meravigliandosi persino del loro suono e del loro significato.
È una caratteristica che io ho sempre invidiato: la
strenua capacità di osservazione che arriva persino a soppesare le parole.
Ma più di ogni altra cosa Mallarmé mi ha insegnato che
proprio perché il linguaggio può essere autoreferenziale, esso ha un valore
immenso che non deve essere sottovalutato.
Mallarmé ci credeva e forse proprio per questo la sua
poesia risulta complicata, non è fluida, non scorre sotto la fugace
ispirazione. Ciò non toglie che resta evocatrice, come ogni poesia che si
rispetti.
Tornando alla questione del linguaggio, va da sé che
il nostro poeta amava i giochi di parole, o come li chiamano i francesi, i “calembour”.
Ci vuole molta arguzia per coglierli, ma aprono orizzonti inaspettati.
Mallarmé giocava persino col proprio nome, diceva “un
bel nome è l’essenziale”.
Eppure non è sempre stato così. Ci aveva sofferto, nei
suoi anni d’infanzia, quando a scuola lo prendevano in giro per il suo cognome
che si poteva anche leggere “Mal armé” (ovvero “mal armato”).
Schernito dai suoi compagni, lui, di salute gracile
per tutta la vita, aveva detestato il suo nome più di chiunque altro.
Eppure, nonostante ciò, l’aveva mantenuto anche dopo
essere diventato poeta e aver pubblicato libri.
Non erano mancati anche qui giochi di parole simili,
fra i suoi colleghi poeti, citiamo per esempio Verlaine:
“« Vous n'êtes pas mal
armé /Plus que Sully n'est prudhomme. »”
“Voi non siete affatto mal armato, come Sully non è
affatto un uomo onesto” (anche
qui gioco di parole sul poeta Sully Prudhomme con “prudhomme” che può significare
“un uomo onesto”, un “proboviro”).
Il nostro Mallarmé avrebbe potuto benissimo scegliere
uno pseudonimo, come facevano tanti suoi colleghi, per citarne qualcuno: Tristan
Corbière (anche qui gioco di parole: Triste
en corps bière, ovvero triste in un corpo di birra) o Lautréamont.
E invece l’ha mantenuto. Perché?
Qui torna utile la riflessione fatta sulle lettere, le
lettere tanto accarezzate dal poeta.
Nel nome MaLLarmé
ne spicca una in particolare, raddoppiata: la L.
In francese le due L si possono pronunciare anche “deux
ailes”, ovvero “due ali”. Mallarmé ha voluto conservare le sue due ali,
lui che si paragonava spesso agli uccelli, principe dell’Azzurro, del cielo
infinito.
Le sue due ali sono una via di fuga, come dirà in una
poesia: “M'enfuir avec mes
deux ailes . . .” (fuggirmene con le mie due ali).
Anche nella firma Mallarmé tendeva a sottolineare la
forma di due ali quando scriveva le due L.
Ma cosa rappresentano esattamente?
Ebbene, le ali non sono altro che la poesia, come
diceva Platone “Il poeta è cosa alata”. La poesia è volo verso
l’Azur,
l’infinito che ossessionava Mallarmé.
E così, dotato di due ali, egli non poteva essere nient'altro se non un poeta, perché era scritto nel suo nome, come predestinato.
Un magnifico
rovesciamento e un riscatto per la cattiva “fama” di un cognome ritenuto ridicolo.
Che cosa magnifica!
Lo spunto per quest’articolo mi è venuto da uno studio
su Mallarmé di Brigitte Léon-Dufour che potete trovare qui: https://www.persee.fr/docAsPDF/caief_0571-5865_1975_num_27_1_1093.pdf
(Mallarmé et l’alphabet)
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