Oggi parleremo di due autori lontanissimi nel tempo, uno un illustre illuminista famoso per i suoi racconti con morale filosofica, l'altro un poeta dell’età augustea famoso per il motto “Carpe diem”.
Ma cos’hanno in comune?
Vediamolo subito con un brano tratto da Candide di Voltaire.
Pangloss, Candide e Martin, tornando alla piccola masseria, incontrarono un vecchietto che si rinfrescava alla sua porta sotto il pergolato d’aranci. Pangloss, che era tanto curioso quanto ragionatore, gli domandò come si chiamasse il muftì che era stato strangolato a Constantinopoli.
- Io non so niente, rispose il buon uomo, e non ho mai saputo il nome di alcun muftì né di alcun vizir. Ignoro assolutamente la faccenda di cui mi parlate; presumo che coloro i quali si immischiano negli affari pubblici qualche volta periscono miseramente, e se lo meritano; ma io non m’informo mai di ciò che accade a Costantinopoli; mi accontento di mandare a vendervi la frutta del giardino che coltivo.
Dopo aver detto tali parole, fece entrare i forestieri nella sua casa : le sue due figlie e i suoi due figli gli presentarono diverse qualità di sorbetti che producevano loro stessi, del kaimak riempito di scorze di cedrato candito, delle arance, dei limoni, dei cedri, degli ananas, dei pistacchi, del caffè di Moka che non era affatto il pessimo caffè di Batavia e delle isole. […]
- Voi dovete avere, disse Candido al turco, una vasta e magnifica terra.
- Io non ho che venti acri, rispose il turco; le coltivo con i miei figli, il lavoro ci allontana dai nostri tre mali: la noia, il vizio e il bisogno.
Candide, tornando alla sua villetta, fece delle profonde riflessioni sul discorso del turco.
Disse a Pangloss ed a Martin: - Quel vecchietto sembra essersi costruito una sorte ben preferibile a quella dei sei re con i quali abbiamo avuto l’onore di mangiare.
- Le grandezze, disse Pangloss, sono molto pericolose stando a quanto dicono i filosofi […]
- Io so ancora, disse Candide, che bisogna coltivare il nostro giardino.
- Voi avete ragione, ripeté Pangloss, poiché quando l’uomo fu piazzato nel giardino d’Eden vi fu messo ut operaretur eum, afffinché lavorasse; ciò prova che l’uomo non è nato per il riposo.
- Lavoriamo senza ragionare, disse Martin; questo è il solo modo per rendere la vita sopportabile.
Tutta la piccola società prese parte in quel lodabile disegno; ciascuno si mise ad esercitare i suoi talenti. […]
- Tutti gli avvenimenti sono concatenati nel miglior dei mondi possibili: poiché alla fine se voi non foste stato cacciato via dal castello per l’amore della signorina Cunégonde, se voi non foste stato messo all’Inquisizione, se non aveste corso l’America a piedi, se non aveste colpito il barone con una spada, se non aveste perduto tutti i vostri montoni del buon paese d’Eldorado, voi non mangereste adesso qui dei cedri canditi e dei pistacchi.
- Ben detto, rispose Candide, ma bisogna coltivare il proprio giardino.
(Candide, capitolo 30)
l'ho tradotto io, per la versione originale clicca qui
l'ho tradotto io, per la versione originale clicca qui
La morale di Voltaire, come si evince dal brano, è appunto quella del “il faut cultiver notre jardin”. Coltivare il proprio giardino vuol dire dedicarsi alle proprie passioni tenendo bene in conto i propri limiti, senza cedere a sogni irrealizzabili che poco tangono la nostra realtà quotidiana.
Con una sola frase il nostro Voltaire ci invita ad allontanarci “dalla noia, dal vizio e dal bisogno”.
È una morale dal sapore epicureo, un invito a vivere nascosti (Lathe biosas) per dedicarsi alle piccole cose che ci circondano. Per il vecchio turco non contano le notizie che circolano in città, poiché la morte di un muftì poco c’entra con la sua vita di campagna …
E qui entra in gioco Orazio, che pressoché aveva detto la stessa cosa!
“Ma sii saggia: filtra il vino,e recidi la speranzalontana, perché breve è il nostrocammino, e ora, mentresi parla, il tempoè già in fuga, come se ci odiasse!Così cogliLa giornata, non credere al domani”.(Ode 11, libro primo)
La morale di Orazio ruota tutta
intorno all’importanza del presente, è una continua esortazione a gioire di ciò
che abbiamo ora e un ammonimento contro le “speranze lontane”, cose
irrealizzabili che ci frenano dal vivere oggi. “Carpe diem” io lo
tradurrei più che con “cogli l’attimo”
in un vero e proprio “cogli la giornata”!
Ma, in particolare, invito a
riflettere sul topos dell’angulus
ridet che più di tutti si avvicina al giardino teorizzato da Voltaire.
“ – fosse Tivoli, che fondò un colonoVenuto d’Argo, il luogo della miaVecchiezza, il termine per meStanco di mare, e di guerra, e di strade!Ma se le ingiuste Parche non vorranno,cercherò l’acqua del Galéso, dolcealle pecore avvolte nelle pelli,e la campagna che regnò Falanto.È l’angolo del mondo che mi ride.Il suo miele contende con l’Imetto,l’oliva con Venafro tutta verde,e offre Giove lunghe primaveree tepori d’inverno: fecondo l’Auloninvidia appena l’uva di Falerno”(Ode 6, libro secondo)
Non vi evoca qualcosa il miele che
gareggia con l’Imetto, l’oliva, l’uva, il vino, la campagna, l’angolo del
mondo? Ma sì! è il kaimak del vecchio turco, la sua piccola masseria lontano da
Constantinopoli, il suo “angolo di mondo” che è il giardino che coltiva con i
suoi cari!!!
Ed ancora …
“La mia casa non haSoffitti scintillanti d’ori e avori,né architravi d’Imettogravano su colonnetagliate nella più lontana Africa; […]C’è candore, da me; e una benevolaVena di fantasia. L’uomo riccoViene a cercare il povero. […]Mi basta la ricchezza
Di questa mia unica Sabina.”(Ode 18, libro secondo)
Ma al di là di tutti questi
confronti che potrebbero sembrare castelli costruiti in aria, Voltaire come
tutti gli uomini del suo tempo subì il fascino di Orazio che, ben oltre il ruolo
di modello letterario, fu considerato l’emblema dell’honnête homme, il tipico uomo galante e dalle maniere raffinate che
piace tanto alle corti a partire dal seicento (il secolo del Re Sole). Voltaire aveva dunque ben impressi nella
memoria i versi e i motti del poeta augusteo, e fece delle sue massime di
saggezza e dei suoi principi estetici un leitmotiv,
tant’è che gli scrisse anche un’epistola nel 1772.
Orazio, come Voltaire d'altronde, fu
sempre in bilico tra l'avvicinamento all'urbanitas,
alla società dei cittadini per eccellenza, e al suo contrario, l'allontanamento
tipico di correnti filosofiche come l'epicureismo.
Qualcuno ha detto che la sua poesia
fu "l'abbeccedario dei saggi"
dell'epoca, ovvero l'epoca delle corti sfarzose dei grands seigneurs, piene di débauche,
sperpero e ipocrisia, anche se nel frattempo covavano già critiche al sistema
all'interno di quelle stesse corti. Mi riferisco appunto ai philosophes, agli illuministi che pian
piano riuscirono a ritagliarsi uno spazio di denuncia e ad aprire la strada
alla rivoluzione francese e poi a tutta la fioritura delle democrazie.
La poesia oraziana era una
preghiera laica per Voltaire che da buon deista detestava il fanatismo
religioso e tutti i sermoni dei preti. L’unico sermone, l’unica morale che
poteva accettare poteva essere quella oraziana.
Il discorso meriterebbe di ulteriori approfondimenti ma per non appesantire il post preferisco eventualmente di farli un'altra volta.
Concludo riportando dei versi dell’epistola
ad Orazio del 1772 di cui parlavo prima.
Si coglie in questo lungo discorso
l’intensità, la passione e la foga con la quale Voltaire immaginava di
rivolgersi ad un suo maestro di vita. Egli riconosce nel poeta tutte le qualità
che non riesce a trovare in una società frivola quale la corte di Luigi XIV che
non aveva fatto altro che portargli casini o la corte di Federico II dove aveva
vissuto per un periodo (tra il 1750 e il 1753) ma che aveva abbandonato per disdegno.
Ti scrivo oggi, voluttuoso Orazio,
a te che respirasti la mollezza e la grazia,che, semplice nei tuoi versi e gaio nei tuoi discorsi,cantasti i due piaceri: i vini e gli amori,e conoscesti bene questa cara saggezzache non ebbe mai da Quinault* il rivale scontroso. (*drammaturgo francese)[…]
Venti secoli scesi nell’eterna notteTi hanno detto come tutto cambia, e per qualche strana sorteL’alloro dei Traiani ha lasciato il posto alla tiara […]Questo mondo, tu lo sai, è un quadro in movimentoTanto gaio, tanto triste, eterno e nuovo.L’impero dei Romani finì con Augustolo;agli orrori della Fronda è successa la bolla:tutto passa, tutto perisce, eccetto la tua gloria e il tuo nome.È là la fortuna dei veri figli di Apollo:i tuoi versi in ogni luogo sono citati di era in era.[…] Noi abbiamo la chiarezza, il fascino, la giustizia;ma eguaglieremo mai l’Italia e la Grecia?È abbastanza in effetti una paga limpidezzaE non pecchiamo noi d’uniformità?Tu hai saputo innalzare la tua lira a venti toni diversi […]
Cacciamo lontano da me tutti questi ratti del Parnaso;gioiamo, scriviamo, viviamo, mio caro Orazio.Ho già superato l’età in cui il tuo grande protettore,avendo recitato il suo ruolo da eccellente attoree sentendo che la morte assediava la sua vecchiezza,volle che lo si applaudisse quando ebbe finito lo spettacolo*.(*chiaro riferimento ad Augusto)Ho vissuto più di te; i miei versi dureranno di meno.Ma al bordo della tomba io concentrerò tutti i miei sforziPer seguire le lezioni della tua filosofia,per disprezzare la morte assaporando la vita,per leggere i tuoi scritti pieni di grazia e di senso,come si beve un vino vecchio che ringiovanisce i sensi.Con te si impara a soffrire l’indigenza,a gioire saggiamente d’un’onesta opulenza,a vivere con sé stessi, a servire i propri amici,a prendersi gioco dei propri stupidi nemici,a uscire da una vita o triste o fortunata,rendendo grazia agli Dei d’avercela donata. […]
Quando la vecchia Atropo*, con gli umani così severa, (*una delle tre moire)avvicinerà le sue forbici alla mia trama leggera,lui ha visto di che aria prendo il mio commiato;sa se il mio spirito, il mio cuore è stato cambiato.Huber* mi faceva ridere con le sue pasquinate, (*pittore svizzero amico di Voltaire)e sono entrato nella tomba al suono delle sue serenate.
Tu dovesti finire così. Le tue massime, i tuoi versi,il tuo spirito giusto e vero, il tuo disprezzo per gli inferi,tutto mi assicura che Orazio è morto da uomo onesto*(*l’honnête homme di cui abbiamo parlato prima).Qualsiasi cittadino moriva così a Roma.
[…]Volendo riformare tutto, abbiamo perduto tutto.Cosa allora! Un vile mortale, un ignorante falciato,ai piedi del mio letto verrà, senza conoscermi,gustando la mia debolezza e parlandomi da maestro!Non sono io in diritto di abbassare il suo tono,facendomi da solo un sermone più saggio?* (*si riferisce ai preti)A chi si comporta bene predichiamo la morale:ma è ridicolo nella nostra ora fataleordinare l’astinenza a chi non può mangiare.Serviamoci bene del tempo*: lì sono le tue massime.(*riferimento al carpe diem oraziano)Caro Orazio, scusami se le traccio in rime;la rima è necessaria ai nostri gerghi nuovi, (*qui Voltaire si scusa della propria maniera di fare poesia. La metrica classica è completamente diversa da quella moderna, in quanto la prima si basa sulla quantità delle sillabe, la seconda sugli accenti, e quindi sulle rime)
[…]Dei bei versi pieni di senso il lettore è affascinato.Corneille, Despréaux e Racine* hanno rimato. (*autori teatrali)Ma io imparo che oggi Melpomene* propone (*musa della tragedia)Di abbassare il suo coturno*, e di parlare in prosa. (*uno stivaletto antico)
(Epistola ad Orazio)
l'ho tradotta io, per la versione originale clicca qui
Nessun commento:
Posta un commento