“Il mio corpo, per effetto del piacere o del dolore, si
ritrova sempre in uno stato di teatralità, di parossismo, che mi piacerebbe riprodurre
in qualche modo: attraverso la fotografia, un film, una colonna sonora.
Non appena interviene una deformazione, non appena il corpo
si isterizza, vorrei mettere in opera un dispositivo di trascrizione:
eruttazioni, deiezioni, sperma prodotto dalle masturbazioni, diarree, sputi,
catarri della bocca e del culo. Ingegnarmi a fotografarli, a registrarli. Lasciar
parlare questo corpo scosso dalle convulsioni, maciullato, urlante. [...]
Il mio corpo è un laboratorio che apro al pubblico come uno spettacolo, unico attore, unico strumento dei miei deliri organici”
Questo è il secondo post che ho deciso di dedicare all’opera
di Hervé Guibert (per il primo, clicca qui), un autore che purtroppo in Italia è poco conosciuto e
tradotto, ma che in Francia è regolarmente edito e distribuito.
Parleremo oggi della sua opera prima: “La mort propagande”, pubblicata
a soli ventidue anni nel 1977 presso l’editore Régine Deforges e riedita presso
lo stesso nel 1991 con alcune piccole modifiche.
In Italia il libro è uno dei pochi tradotti e
lo si può trovare in una piccola libreria a Napoli, la “Libreria Dante &
Descartes” a Piazza del Gesù Nuovo.
In quest’opera Hervé mette in scena la propria morte, un po’
come aveva fatto Caravaggio nel suo Davide e Golia.
E non è mica facile immaginarsi morti, visualizzare il proprio
cadavere, la propria testa mozzata!
Caravaggio ci era riuscito in maniera magnifica, rappresentando
l’atroce urlo della morte con un realismo al tempo ancora inedito.
Anche Hervé a modo suo, lui, uno degli inventori della
cosiddetta autofiction, lo fa con cinica meticolosità.
“Nella notte fra il 6 e il 7 marzo 19…, H.G. venne trovato
morto al centro della sua camera in disordine, immerso nel suo stesso sangue.
La morte l’aveva zittito per sempre.
Il suo petto era stato compresso fino a fargli uscire il
cuore dalla gola, fino a farglielo rigettare. Era stato tagliato a strisce e
strati di pelle, successivamente messi in esposizione, inchiodati sui muri
della camera. Quindi, le sue ossa erano state fatte bollire in una grande
marmitta di latta così da ottenere diverse gelatine in seguito colorate e
inventariate.”
Hervé descrive tutto della sua morte: il suo corpo, parabola di una vita che si apre e si chiude
intorno ad esso, è espresso nelle sue mutevoli sfaccettature.
Ogni secrezione, ogni singola sostanza prodotta, Hervé
la mette sul tavolo, la studia, l’analizza con termini quasi scientifici, stendendola nuda e cruda sul banco come in una vivisezione alla dottor Tulp.
Magnificazione di tutto quello che un corpo è e può fare
nella sua costituzione e nei suoi limiti.
Perché, alla maniera platonica, tutto passa attraverso di esso,
tutte le emozioni più forti che sono fonte di vita. Tant’è che in una delle sue
opere postume, nel diario d’ospedale “Cytomégalovirus”, il nostro Hervé, ormai annullato dalla sieropositività, dirà: “quando
ritrovo un’emozione erotica, è un po’ di vita che ritrovo in questo
bagno di morte”.
La sessualità, le pulsioni, i desideri erotici, le fantasie
più sfrenate, sono tutte queste cose che si celano dietro il mistero del corpo che cerca incessantemente il contatto dell'altro, questione di chimica, di atomi.
Un corpo che allo stesso tempo è potenzialmente una scarica
di piacere elettrico alla maniera whitmaniana ma anche una discarica di
tossicità con la sua interminabile serie di difetti di fabbrica, muchi, merda, piscio, ecc... Un
corpo nato per il piacere ma destinato al deperimento, alla decomposizione.
C’è stato chi ha definito questo genere di opera “existential thanatography”, ovvero analisi esistenziale della morte. “Uno
dei compiti della letteratura è l’apprendimento della morte” diceva il nostro
scrittore.
“Mi ero proprio messo a scrivere dei testi
violenti di dissezione di corpi; ero molto ossessionato all’epoca dall’arte
anatomica, tutto ciò che girava intorno alla morte; l’obitorio, i cadaveri. Vivevo
lì dentro. Una passione estetica, una passione da voyeur, da collezionista. Mi
sembrava molto vivo. Dei testi violenti in cui le scene erotiche e gli atti di
dissezione venivano raccontati come delle azioni amorose.”
Si tratta di scatti realizzati dallo stesso Hervé Guibert in vari musei anatomici, tra cui il Museo delle cere Grévin e la Specola di Firenze. Fotografie esposte al pubblico l'anno scorso in occasione della mostra "les Palais des monstres désirables" alla galleria parigina "Les Douches".
Scattate alla fine degli anni '70, esse hanno qualcosa di premonitore.
Commenta infatti Christine Guibert, organizzatrice della mostra e sua moglie fino alla morte: "In ogni caso, Hervé ha sempre pensato che sarebbe morto giovane e intorno a lui lo pensavamo tutti. La sensazione che tanta giovinezza trionfante, talentuosa, tanta bellezza, non potesse durare. Dava sempre l'impressione di negoziare con la morte un po' di tempo in più per fare un'opera. In quindici anni è riuscito a produrre un'opera considerevole, ma che resta opera giovanile poiché morto a 36 anni. Sapeva che il suo tempo era contato. Ma per tornare all'ossessione della morte, a questi corpi smembrati presenti nelle foto di quest'esposizione, non bisogna dimenticare che suo padre, che era stato ispettore veterinario, lavorava nei macelli e rientrava a casa con il camice sporco di sangue. Ciò disgustava Hervé ma lo affascinava anche".
C’è qualcosa di lucido e delirante allo
stesso tempo in questo libro, qualcosa che richiama il grande Rimbaud della “Stagione
all’inferno”. Nella sua frammentarietà, nei suoi pezzi di carne triturati e
messi in vetrina, spettacolarizzati, Hervé Guibert racconta la vita, ce la restituisce nella sua
parte più sotterranea attraverso una scrittura automatica e quasi meccanica, che scorre libera sotto la penna giocando per associazioni dirette, senza eufemismi, senza
mezzi termini.
"Dopo questa serie di espressioni, il travestimento estremo, l'ultimo trucco, la morte. La imbavagliamo, la censuriamo, tentiamo di annegarla nel disinfettante, di soffocarla nel ghiaccio. Io voglio invece che alzi la sua voce potente e che canti, come una diva, attraverso il mio corpo. Sarà la mia unica partner e io il suo interprete. Non voglio ignorare questa fonte di spettacolarità immediata, viscerale.
Intendo darmi la morte sulle scene, davanti alle telecamere. Rappresentare uno spettacolo estremo, eccessivo del corpo mentre muore. Sceglierne i termini, i tempi, lo svolgimento, i dettagli. [...]
Nessun effetto speciale, nessuna presunzione. Un corpo vero, il mio vero sangue. Prendete e mangiate, bevete (la mia paranoia, la mia megalomania). Lo svuoterò con furore ed ebbrezza (il sangue caldo dell'eroina gonfierà le vene), lo dissanguerò, lo farò scoppiare come un sacco.
Il pubblico sarà in preda a convulsioni, spasmi, moti di repulsione, erezioni, vibrazioni, piaceri, vomiti di ogni sorta. Questo corpo comune a tutti si metterà a parlare. [...]
Chi mai vorrà riprodurre il mio suicidio, questo capolavoro di sicuro effetto? Chi vorrà filmare l'iniezione che provoca la morte più lenta, il veleno che penetra con un bacio, colando da una bocca all'altra (il mio nome è Fatalità)?"
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