Il medioevo è così curioso.
Si è preoccupato di tramandarci i
nomi di spade e animali dei personaggi famosi e non il nome della moglie di
Carlomagno (che Manzoni per ovvie ragioni letterarie chiama Ermengarda).
E così sappiamo che Roland maneggiava
la Durlindana, il suo compagno
Olivier l’Hauteclaire, il loro
signore Carlo Magno la Gioiosa
(sappiamo il nome della spada e non della moglie!), Artù ha estratto Excalibur e il re inglese Edoardo il
Confessore spezzò la Cortana.
Stesso discorso vale per gli animali,
il cane di Artù si chiamava Cavall,
quello di Tristano Husdent, e sempre
nella stessa opera, quello regalato a Isotta Petit-Crû.
È curiosa la logica che c’è dietro,
senz’altro.
![]() |
Un bellissimo affresco del Parmigianino nel castello di Fontanellato a Parma. |
E così oggi ci troviamo a parlare del
cane di Tristano.
Uno degli esempi più belli nella
letteratura dei nostri amici a quattro zampe, se mai ne esistesse una.
Più o meno tutti conosciamo la storia
di Tristano e Isotta, la storia che secondo il critico Denis De Rougemont è alla base della nostra cultura in tema amoroso,
tormentata e struggente, come gli amori che ci piace vivere.
Un amore vissuto, tranquillo e
trasparente è al di fuori dei nostri canoni estetici, e questo il Rougemont ce
lo ha dimostrato con un bellissimo saggio dal titolo “L’amour et l’occident”.
Tristano e Isotta si amano, ma di un
amore adultero, e a suo modo dipendente, assuefatto, a causa di un filtro d’amore.
Tralascio i dettagli della storia
addentrandomi subito nel testo, di cui ho selezionato alcuni brani.
[Piccola premessa sulle fonti. La storia di Tristano e
Isotta è considerata un vero e proprio mito, prodotto dalla società medievale su
un’originale base celtica, e come tale le sue origini sono probabilmente
popolari e tramandate oralmente. Motivo per il quale vi è una molteplicità di
fonti, sia antiche sia moderne.
Le più famose sono quelle di Béroul e di Thomas
d’Angleterre.
Quella su cui ho basato la mia traduzione è la versione
di Joseph Bédier, un filologo francese attivo nei primi anni del novecento, che
mette insieme i due autori sopracitati]
La foresta
Tristano e Isotta sono fuggiti dal
castello del re Marco (marito di Isotta), per vivere in “libertà” il loro folle
amore.
Tristano aveva cresciuto un cane, un
cane da caccia, bello, vivo, agile nella corsa […]
Si chiamava Husdent. Avevano dovuto rinchiuderlo sulla
torre più alta del castello, ostacolato da un ceppo sospeso al suo collo; dal
giorno in cui aveva smesso di vedere il suo padrone, rifiutava ogni pietanza,
grattando la terra col piede, piangendo, urlando. Molti ne ebbero compassione.
«Husdent – dicevano - nessuna bestia ha mai saputo amare
come te; Salomone aveva detto saggiamente che “il mio vero amico è il mio
levriero”».
E il re Marco, ricordandosi dei giorni andati, sognava in
cuor suo: «Questo cane mostra grande affetto piangendo così il suo signore:
perché non c’è nessuno in tutta la Cornovaglia che valga Tristano?»
Tre baroni andarono
dal re:
«Sire, fate slegare Husdent: così sapremo se porta un tal
cordoglio per il rimpianto del suo padrone; o se, non appena liberato, il muso
aperto, la lingua al vento, inseguirà, per morderli, persone e bestie.»
Lo si liberò. Così Husdent saltò dalla porta e corse fino
alla camera che una volta apparteneva a Tristano. Gridò, gemette, cercò, scoprì
infine la traccia del suo padrone. Percorrendo passo passo la strada che
Tristano aveva seguito verso i roghi. Tutti lo seguivano.
Lui abbaiò fortemente
e salì verso la falesia (*costa rocciosa tipica della Cornovaglia).
Ecco che, giunto alla
cappella, salì sull’altare; all’improvviso si gettò dalla vetrata (* come aveva
fatto Tristano nella sua fuga), cadde ai piedi di una roccia, riprese la pista
sul greto, si fermò un istante nel bosco fiorito dove Tristano si era
imboscato, poi ripartì verso la foresta. Chiunque lo vide ne ebbe pietà.
«Sire – dissero allora
i cavalieri – smettiamo di seguirlo; potrebbe condurci in un punto da cui il
ritorno sarebbe arduo.»
Lo lasciarono e se ne
tornarono.
Nel
bosco, il cane abbaiò ancora e la foresta ne fece l’eco.
Da
lontano, Tristano, la regina (Isotta) e Governal (*lo scudiero di Tristano) lo sentirono: «ma è Husdent!».
Si
spaventarono: senza dubbio il re li seguiva; così li inseguiva come bestie con
dei segugi!... Sprofondarono in un fossato.
Al
margine, Tristano si voltò, tendendo il suo arco. Ma quando Husdent lo vide e
riconobbe il suo padrone, saltò fino a lui, scosse la testa e scodinzolò la
coda, inarcò la schiena, gli girò intorno.
Chi
aveva mai visto una tale gioia?
Poi
corse da Isotta la Bionda, da Governal, e fece la festa persino al cavallo.
Tristano
ne ebbe molta pietà:
«Ahimé!
Per quale sciagura ci siamo ritrovati? Che può fare di questo cane, che non sa
trattenersi dalla gioia, un uomo ricercato? Per le pianure e per i boschi, per
tutta la terra, il re ci insegue: Husdent ci tradirà con il suo abbaiare. Ah! È
per amore e nobiltà d’animo che è venuto a cercare la morte. Bisogna
guardarcene allora. Che fare? Consigliatemi.»
Isotta
lo accarezzò e disse:
«Sire,
risparmiatelo! Ho sentito parlare di un forestiero gallese che aveva abituato
il suo cane a seguire, senza abbaiare, la traccia di sangue dei cervi feriti.
Amico Tristano, che gioia se riuscissimo ad addestrare così Husdent!»
Egli
ci pensò un attimo, mentre il cane leccava le mani d’Isotta. Tristano ne ebbe
pietà e disse:
«Voglio
provare; mi è troppo difficile ucciderlo.»
Presto
Tristano se ne andò a caccia, uccise un daino ferendolo con una freccia. Il
cane voleva lanciarsi sulla via del daino, gridando così forte che la foresta
risuonò. Tristano lo fece tacere picchiandolo; Husdent alzò la testa verso il
padrone, si spaventò, non osando più abbaiare, abbandonando la traccia;
Tristano lo mise sotto di lui battendolo col bastone di castagno, come fanno i
venatori per eccitare i cani; a questo segnale, Husdent voleva abbaiare di
nuovo, e Tristano lo corresse.
Insegnandolo
a questo modo, appena un mese dopo, l’ebbe abituato a cacciare in silenzio:
quando la freccia feriva un capriolo o un daino, Husdent, senza mai usare la
voce, seguiva la traccia sulla neve, il ghiaccio o l’erba […]
-
La separazione
Abbiamo
visto quindi che Tristano ha rincontrato il suo cane Husdent, che, nella fuga,
aveva dovuto lasciare al castello. Abituandolo pian piano al mondo della
foresta e alla vita da fuggiasco, ha fatto in modo che non risultasse un
ostacolo bensì un ottimo aiuto.
Nel
prossimo brano vediamo che Tristano e Isotta decidono di separarsi,
scambiandosi reciproci doni. Piccola nota: la società medievale è una società
del dono e del contro-dono, la letteratura che ne è lo specchio simbolico
riesce bene a rappresentare questo intricato sistema di scambi e favori.
«Mio dio! - disse Tristano - che dolore perdervi, amica!
Ma devo, poiché la sofferenza che vi sto infliggendo posso adesso
risparmiarvela. Quando giungerà l’istante di separarci, vi donerò un regalo,
pegno del mio amore. Dal paese lontano in cui vado, vi invierò un messaggero;
lui mi porterà la vostra volontà, amica, e, al primo appello, dalla terra
lontana, accorrerò.»
Isotta sospirò e disse:
«Tristano, lasciami Husdent, il tuo cane. Mai un levriero
di valore ha mai conservato così alto l’onore. Quando lo rivedrò, mi ricorderò
di te e sarò meno triste. Amico, ho un anello di diaspro verde, prendilo per
l’amore che provi per me, portalo al dito: se mai un messaggero asserisse di
venire in tuo nome, non lo crederò, qualsiasi cosa faccia o dica, se non mi
mostrerà quest’anello. Ma, dopo averlo visto, nessun potere, nessuna difesa
reale m’impediranno di fare ciò che tu mi hai chiesto, che sia saggezza o
follia.»
«Amica, vi dono il mio Husdent.»
«Amico, prendi questo anello come ricompensa.»
E i due si baciarono sulle labbra.
Il buffone
Siamo
verso la fine del romanzo, una delle mie parti preferite. Tristano, allontanato
dalla Cornovaglia per tanto tempo, dopo aver vagato in lungo e in largo per le
varie corti al servizio di diversi signori, decide di tornare dalla sua bella
Isotta perché vuole essere certo di essere ancora ricambiato da lei.
Si
presenta nelle vesti di straccione, da scemo del villaggio, buffone di corte.
Contraffacendo la sua voce fa in modo di non essere riconosciuto, così bene da
non essere riconosciuto nemmeno da Isotta. Unica eccezione: il suo cane!
«Amico, siate il benvenuto!»
Tristano rispose con la voce eccezionalmente contraffatta:
«Sire, il più buono e nobile fra tutti i re, sapevo che
alla vostra vista il mio cuore si sarebbe riempito di dolcezza. Dio vi
protegga, vostra maestà!»
«Amico, cosa siete venuto a chiedere quaggiù?»
«Isotta, che ho molto amato. Ho una sorella che vi porto
in cambio, la bellissima Brunehaut. La regina vi annoia, provate questa qui,
facciamo cambio, vi do mia sorella, offritemi Isotta; la prenderò e vi servirò
con amore.»
Il re se ne ride e dice al buffone:
«Se io ti do la regina, che ne vorrai fare? Dove la
porterai?»
«Lassù, fra il cielo e le nuvole, nella mia bella casa di
vetro. Il sole l’attraversa con i suoi raggi, i venti non possono smuoverla,
porterò la regina in una sala di cristallo, tutta tempestata di fiori, luminosa
al mattino quando il sole la colpisce.»
Il re e i suoi baroni dissero fra loro:
«Ecco qui un folle serio, abile nella parola!»
Lui si era seduto sul tappeto guardando teneramente
Isotta.
«Amico, gli disse Marco, da dove ti giunge la speranza che
la mia dama si prenderà cura di un buffone orripilante come te?»
«Sire, ne ho il diritto: ho compiuto per lei grandi
fatiche, ed è per lei che sono divenuto folle»
«Chi sei dunque?»
«Sono Tristano, colui che ha molto amato la regina, e che
l’amerà fino alla morte.»
A questo nome, Isotta sospirò, cambiò colore del viso e,
corrucciata, gli disse:
«Vattene! Chi ti ha fatto entrare qui? Vattene, maledetto
buffone!»
Il buffone notò la sua collera e disse:
«Regina Isotta, non vi ricordate del giorno in cui, ferito
dalla spada avvelenata del Morholt (*gigante che Tristano ha combattuto
all’inizio del romanzo, di qui in poi Tristano enumera tutte le imprese che ha fatto per Isotta riassumendo punto per punto il romanzo), trascinando la mia arpa sul mare, spinto verso le
vostre rive? Voi mi avete guarito. Non vi ricordate più, mia regina?»
Isotta rispose:
«Vattene da qui, pazzo; non mi piacciono né i tuoi occhi
né tu»
All’istante il buffone
si voltò verso i baroni, li cacciò verso la porta gridando:
«Folli, via di qui! Lasciatemi da solo con Isotta, perché
sono venuto quaggiù per amarla».
Il re se ne ride, Isotta arrossisce:
«Sire, cacciate questo buffone!».
Ma il buffone
riprende, con la sua voce contraffatta:
«Regina Isotta, non vi ricordate del grande drago che ho ucciso
nella vostra terra d’Irlanda? Ho nascosto la sua lingua in tasca, e,
interamente bruciato dal suo veleno, sono caduto nei pressi dell’acquitrino.
Ero allora un meraviglioso cavaliere! … e attendevo la morte, quando mi avete
soccorso.»
Isotta risponde:
«Taci, tu ingiuri i cavalieri, perché non sei altro che un
buffone dalla nascita. Maledetti siano i marinai che ti portarono fin qui,
invece di gettarti in mare!»
Il buffone scoppiò a
ridere e continuò:
«Regina Isotta, non vi ricordate del bagno dove volevate
uccidermi con la mia spada? E del racconto del capello d’oro che vi calmò? (*il re Marco scelse Isotta perché un uccello aveva portato i biondi capelli di lei al suo capezzale, Tristano era stato mandato in Irlanda per annunciare la lieta notizia della nozze di cui Isotta era rimasta entusiasta, in quanto voleva dire che finalmente poteva diventare una regina a tutti gli effetti). E
come vi ho difesa contro il siniscalco codardo?».
«Taci, perfido contastorie! Perché vieni qui a spacciare
le tue fantasticherie? Ti sei ubriacato ieri sera senza dubbio, e l’ebbrezza ti
fa vagheggiare.»
«È vero, sono ubriaco, e di una tale bevanda che mai
quest’ebbrezza si dissiperà. Regina Isotta, non vi ricordate del giorno così
bello, così caldo, in alto mare? Avevate sete, non vi ricordate, principessa
d’Irlanda? Bevemmo entrambi dallo stesso recipiente (*il filtro d'amore che li ha fatti innamorare). Da lì in poi, sono stato
sempre ebbro, e di una terribile ebbrezza…»
Quando Isotta intese
queste parole che solo lei poteva comprendere, si nascose la testa sotto il
mantello, si alzò e volle andarsene. Ma il re la trattenne per la punta
d’ermellino e la fece sedere al suo fianco:
«Aspettate un poco, Isotta, amica, che finiamo di
ascoltare queste sciocchezze fino in fondo. Buffone, che mestiere sai fare?»
«Ho servito re e conti»
«Sire – gli dice Isotta - mi sento stanca e dolente.
Permettete che vada a riposare nella mia stanza; non posso più ascoltare queste
follie».
Si ritirò pensierosa
nella sua camera, si sedé sul suo letto, e portò un gran cordoglio:
«Povera me! Perché sono nata? Ho il cuore pesante e
lacerato. Brangien (*la sua ancella), cara sorella, la mia vita è così aspra e dura che varrebbe
molto di più la morte! C’è lì un buffone, venuto qui in un momento sbagliato:
questo buffone, questo giocoliere è un cantante o un indovino, perché sa punto
per punto il mio essere e la mia vita; sa delle cose che nessuno sa, eccetto te,
me e Tristano; lui le sa, il maledetto, per incantesimo e sortilegio.»
Brangien rispose:
«Non sarà proprio Tristano in persona? »
«No, perché Tristano è bello ed è il migliore fra i
cavalieri; ma quest’uomo orripilante e contraffatto … Sia maledetto da Dio!
Maledetta sia l’ora in cui è nato, e maledetta la nave che l’ha portato qui
invece di affogarlo fra le onde profonde!»
Lui entra, vede
Isotta, si lancia verso di lei, le braccia tese, vuole stringerla al petto; ma,
imbarazzata, bagnata di un sudore d’angoscia, lei si getta all’indietro, lo
schiva; e, vedendo che lei evita il suo contatto, Tristano trema di vergogna e
di collera, si fa vicino alla parete, vicino alla porta; e, con la voce sempre
contraffatta:
«Certo … – dice – ho vissuto troppo … perché ho visto il
giorno in cui Isotta mi respinge, non si degna di amarmi, mi ritiene un vile!
Ah! Isotta, chi ben ama tardi dimentica (*proverbio francese)! Isotta è una
cosa bella e preziosa, una fonte abbondante che sgorga e corre a fiotti larghi
e chiari, il giorno in cui si dissecca, non vale più niente: così un amore si
inaridisce.»
Isotta rispose:
«Fratello, ti guardo, dubito, tremo … io non so, non
riconosco Tristano.»
«Dama regina, so bene che vi siete sbarazzata di me e vi
accuso di tradimento. Ho vissuto, cara, dei giorni in cui mi amavate d’amore
vero. Era la foresta profonda, sotto la loggia di fogliame. Vi ricordate ancora
del giorno in cui vi ho dato il mio bel cane Husdent? Ah! colui che mi ha
sempre amato, e per me lascerebbe Isotta la Bionda. Dov’è? Che ne avete fatto?
Lui, per lo meno, mi riconoscerebbe.»
«Vi riconoscerebbe? Voi dite follie; perché, dopo che
Tristano è partito, lui se ne resta laggiù, accoccolato nella sua nicchia, e si
lancia contro ogni uomo che si avvicini a lui. Brangien, portatemelo.»
Brangien lo porta.
«Vieni qui, Husdent – dice Tristano – tu eri mio, io ti
riprendo.»
Quando Husdent sente
la sua voce, fa scappare il guinzaglio dalle mani di Brangien, corre dal suo
padrone, rotola ai suoi piedi, lecca le sue mani, abbaia di gioia.
«Husdent! – grida il buffone – benedetta sia, Husdent, la
pena che ho messo nel crescerti! Tu mi hai dato una migliore accoglienza di
colei che ho tanto amato. Lei non vuole riconoscermi: riconoscerà solamente
questo anello che mi ha donato tempo fa, con pianti e baci, il giorno della
nostra separazione? Questo piccolo anello di dispro non mi ha mai lasciato:
spesso gli ho domandato consiglio nei miei tormenti, spesso l’ho bagnato delle
mie lacrime calde.»
Isotta vide l’anello. Spalancò le braccia:
«Eccomi qui! Prendimi, Tristano!»
Allora Tristano smise
di contraffare la sua voce:
«Amica, come hai potuto così a lungo rinnegarmi, più a
lungo di questo cane? Che importa quest’anello? Non pensi che mi sarebbe
risultato più dolce essere riconosciuto al solo ricordo dei nostri amori
passati? Che importa il suono della mia voce? È il suono del mio cuore che
avresti dovuto ascoltare»
«Amico – dice Isotta, forse l’ho sentito più spesso di
quel che tu pensi; ma noi siamo avviluppati di menzogne, inganni: dovevo, come
questo cane, seguire il mio desiderio, al rischio di farti prendere e uccidere
sotto i miei occhi? Mi sono difesa e ti ho difeso. Né il ricordo della tua vita
passata, né il suono della tua voce, né questo anello stesso mi provano
alcunché, perché potrebbero essere benissimo i perfidi giochi di un mago. Io mi
rendo, pertanto, alla vista dell’anello: non ho giurato forse che, non appena
l’avrei rivisto, anche a costo di perdermi, avrei sempre fatto quel che tu mi avresti chiesto,
che fosse saggezza o follia? Saggezza o follia, eccomi qui; prendimi, Tristano!»
Siamo
giunti alla fine per tirare le fila del discorso e spiegare perché ho scelto di
focalizzarmi proprio su Husdent.
Il
motivo per cui mi ha colpito molto la sua figura è forse proprio il fatto che
rispecchia molto quello che è il nostro immaginario di cane, sempre
disponibile, fedele e affettuoso.
Husdent
non ha bisogno di contraffazione, sa che il suo padrone è lì, non importa le
vesti sotto cui si presenta. È tutto fiuto, tutto istinto. Saprebbe
riconoscerlo anche fra mille sosia, ed è per questo che la sua fiducia è
illimitata, il suo affetto incommensurabile.
Per
questo annovererei questo cane fra i più importanti della presunta letteratura
canina, in questo canone lui non dovrebbe affatto mancare!
Alla
prossima.