Lo spazio della pagina in Perec






Perec è sempre un piccolo incidente di percorso nella mia vita, qualcosa in cui mi ci imbatto per caso e ogni volta si rivela una scoperta incredibile.

Chi mi conosce sa bene quanto io ami le riflessioni metaletterarie, quando la letteratura compiace sé stessa contraendosi (o forse dilatandosi) nella propria autoreferenzialità, in un gioco di astrazione che conferma il suo essere un mondo a sé, con la sua concretezza, le sue speculazioni, i suoi giochi linguistici, le sue regole e contro-regole… Così facendo essa si auto-infrange, spezzando la normale parete che si instaura tra il narratore e il lettore, per mostrarsi finalmente dall’interno, senza orpelli o artifici di sorta. Scarnificandosi essa mostra i giochi, gli scherzetti e gli strumenti retorici che usa per convincerci e affabularci. Ecco che allora i personaggi sbucano fuori dalle pagine, dialogano col lettore o lo scrittore, si interrogano sulle dinamiche che percorrono la pratica letteraria, le tecniche che la sostengono, i motivi che la sospingono.

Un’altra cosa che mi ha sempre affascinato a riguardo è anche il fatto che gli scrittori che si danno a riflessioni meta-letterarie spesso e volentieri hanno un approccio per così dire “leggero” alla letteratura. In un certo senso proprio il distacco dagli inganni della finzione letteraria spinge gli scrittori ad abbandonare la pesantezza della retorica per poter abbracciare con leggerezza la propria scrittura. A tal proposito, il titolo della mia tesina di maturità era proprio: “Elogio della leggerezza: riflessioni leggere sulla metaletteratura” [1]
Se immaginiamo quindi di inventare un canone impostato sulla dicotomia metaletteratura – leggerezza, possiamo affermare con certezza che Perec merita a pieno titolo di farvi parte. E ancora una volta me l’ha confermato con il libro sorprendente di cui vi parlerò oggi: Espèces d'espaces (1974).

"L'oggetto di questo libro non è esattamente il vuoto, tratta piuttosto di ciò che c'è intorno ad esso, o al suo dentro. Ma alla fin fine non è che ci sia un granché: il niente, dell'impalpabile, praticamente dell'immateriale: dell'estensione, all'esterno, di ciò che c'è al di fuori di noi, ciò che sta in mezzo a ciò in cui ci muoviamo, l'ambiente circostante, lo spazio d’intorno.
Lo spazio. Non proprio gli spazi infiniti, quelli il cui silenzio, a forza di prolungarsi, finisce per innescare qualcosa che assomiglia alla paura, neanche i già quasi "domestici" spazi interplanetari, intersiderali o intergalattici, ma gli spazi molto più vicini, minori in linea di massima: le città, per esempio, o ancora le campagne o tutt'al più i corridoi della metropolitana, o ancora un giardino pubblico.
Noi viviamo nello spazio, in questi spazi, in queste città, queste campagne, questi corridoi, questi giardini. Ciò ci appare evidente. Può darsi che ciò dovrebbe essere effettivamente evidente. Ma in realtà non lo è affatto e questo va da sé. È reale, evidentemente, e di conseguenza, è verosimilmente razionale. Lo si può toccare. Ci si può finanche lasciare andare con l'immaginazione.
Niente, per esempio, ci impedisce di concepire delle cose che non siano né delle città né delle campagne (né delle periferie), o ancora dei corridoi della metropolitana che siano al tempo stesso dei giardini. Niente ci impedisce neanche di immaginare una metro in piena campagna (ne ho visto persino una in una pubblicità su questo tema ma - come dire? - era una campagna pubblicitaria). Ciò che è certo, in ogni caso, è che a un'epoca senza dubbio troppo lontana affinché qualcuno di noi possa averne serbato un ricordo che sia un minimo preciso, non c'era niente di tutto questo: né corridoi, né giardini, né città, né campagne. Il problema non è neanche sapere come si è arrivati a tutto ciò, ma semplicemente di riconoscere che ci si è arrivati, che si è lì: non c'è uno spazio, un bello spazio, un bello spazio intorno, un bello spazio intorno a noi, ci sono dei piccoli pezzi di spazi, e uno di questi pezzi è un corridoio della metropolitana, e un altro di questi pezzi è un giardino pubblico; [...]
In breve, gli spazi si sono moltiplicati, smembrati, diversificati. Ce ne sono oggi di tutte le taglie e di ogni sorta, per tutti gli usi e tutte le funzioni. Vivere, è passare da uno spazio all'altro, cercando il più possibile di non sbatterci contro."

Oggetto dell’indagine letteraria di Perec è in questo caso lo spazio inteso nelle sue molteplici forme. Con un’analisi allo stesso tempo semiologica e fenomenologica, egli percorre lo spazio in direzione estensiva: da una dimensione di prossimità (vedremo, la pagina) a quella lontana e forse inconcepibile degli spazi siderali. Noi ci occupereremo solo della pagina.

“Lo spazio di un foglio di carta (modello internazionale regolamentato, in uso in tutte le Amministrazioni, in vendita in tutte le cartolerie) misura 623,7 cm2. Bisogna scrivere un po' più di sedici pagine per occupare un metro quadro. Supponendo che il formato medio di un libro sia 21 x 29,7 cm, si potrebbe, smantellando tutte le opere stampate conservate alla Biblioteca Nazionale e stendendo accuratamente le pagine l'una a fianco l'altra, coprire interamente sia l'isola di Sant'Elena sia il lago del Trasimeno.
Si potrebbe calcolare anche il numero di ettari di foreste che ci è voluto per produrre la carta necessaria a stampare le opere di Alexandre Dumas padre che, lo ricordiamo, si è fatto costruire una torre in cui ciascuna pietra portava, scolpito, il titolo di uno dei suoi libri.”

La pagina è il primo spazio che viene in mente al nostro scrittore (forse proprio in quanto scrittore) e anche il primo che il lettore può osservare durante la lettura. Uno spazio creato come gli altri spazi e persino misurabile come gli altri spazi.



In questo passaggio, invece, Perec mette in evidenza il contrasto tra pieni e vuoti che si viene a creare nello spazio della pagina. La carta è lo spazio e l’inchiostro lo abita. “Guardate: sulla carta sono crocefisso coi chiodi delle parole” diceva il poeta Majakovskij.
L’inchiostro riempie lo spazio e lo orienta, piazzando le lettere come degli oggetti sul vuoto del foglio dandogli un ordine preciso. Questo lo avevano ben capito i futuristi, quando ad inizio del Novecento - nel passaggio da una poesia dell’orecchio di stampo simbolista a una poesia dell’occhio di stampo avanguardistico – inventarono le parole in libertà.
Se la tradizione occidentale prevede un’abitudine di lettura da sinistra a destra [2], fatto che porta in sé anche la nozione di orizzontalità e linearità nell’orientamento della pagina, i futuristi nella loro lotta anarchica al sistema vigente vogliono affermare un nuovo linguaggio visuale rovesciando la prospettiva.
A tal proposito particolarmente interessante è il quadro La rivolta” di Luigi Russolo (1911), perché mette in evidenza la nostra concezione di linearità. Se per noi occidentali il corso naturale delle cose è concepibile come una linea immaginaria verso destra (perché, per l’appunto siamo abituati a leggere da sinistra a destra, tanto una pagina quanto un quadro), la rivolta allo status quo non può che andare in direzione contraria, da destra verso sinistra.

Luigi Russolo, La Rivolta (1911)


Sulla falsariga di questo concetto, c’è anche Il ciclista” di Natalia Goncharova (1913), dove si vede un ciclista che va contro-corrente (in questo caso la direzione “corretta” sarebbe data dalla mano all’angolo sinistro della tela).

Natalia Goncharova, Il Ciclista (1913)

Ma per tornare a Perec, mi piace quindi evidenziare come simpaticamente e argutamente egli voglia ricordarci com’è fatto lo spazio della pagina; come su di esso si posino i caratteri tipografici, seguendo un ordine dato per scontato ma ben preciso che è quello che va da sinistra e destra e dall’alto in basso; e come persino nel rapporto tra le pagine si instauri l’ordine fronte-retro. Se ci riflettiamo bene, queste considerazioni portate alle estreme conseguenze potrebbero far nascere pagine assolutamente illeggibili, spazi assolutamente inabitabili per il nostro essere razionale.



Mi ha ricordato anche un passo di “Se una notte d’inverno un viaggiatore” di Calvino:
"Il romanzo che stai leggendo vorrebbe presentarti un mondo corposo, denso, minuzioso. Immerso nella lettura, muovi macchinalmente il tagliacarte nello spessore del volume: a leggere non sei ancora alla fine del primo capitolo, ma a tagliare sei già molto avanti. Ed ecco che, nel momento in cui la tua attenzione è più sospesa, volti il foglio a metà d'una frase decisiva e ti trovi davanti due pagine bianche.
Resti attonito, contemplando quel bianco crudele come una ferita, quasi sperando che sia stato un abbacinamento della tua vista a proiettare una macchia di luce sul libro, dalla quale a poco a poco tornerà ad affiorare il rettangolo zebrato di caratteri d'inchiostro. No, è davvero un candore intatto che regna sulle due facciate che si fronteggiano. Volti ancora pagina e trovi due facciate stampate come si deve. Continui a sfogliare il libro; due pagine bianche s'alternano a due pagine stampate. Bianche; stampate; bianche; stampate: così via fino alla fine. I fogli di stampa sono stati impressi da una parte sola; poi piegati e legati come fossero completi. Ecco che questo romanzo così fittamente intessuto di sensazioni tutt'a un tratto ti si presenta squarciato da voragini senza fondo, come se la pretesa di rendere la pienezza vitale rivelasse il vuoto che c'è sotto. Provi a saltare la lacuna, a riprendere la storia afferrandoti al lembo di prosa che vien dopo, sfrangiato come il margine dei fogli separati dal tagliacarte. Non ti ci ritrovi più: i personaggi sono cambiati, gli ambienti, non capisci di cosa si parla, trovi nomi di persone che non sai chi sono: Hela, Casimir. Ti viene il dubbio che si tratti di un altro libro [...]"

In questo caso a spaventare il lettore è il vuoto della pagina, l’assenza di scrittura. Quando la scrittura ritorna, però, sarà la discontinuità nella narrazione a interrompere definitivamente il piacere della lettura, rendendo il romanzo “squarciato da voragini senza fondo”.
Lo spazio della pagina ha quindi bisogno di parametri precisi affinché affiori il fantastico mondo della letteratura, fatto di parole e di lettere, nient’altro che di parole e di lettere.






[1] In particolare gli esempi trattati nella tesina furono: “Il codice di Perelà” di Palazzeschi, “Se una notte d’inverno un viaggiatore” e “Lezioni americane” di Calvino, “Niebla” di Unamuno e “Le vol d’Icare” di Queneau.
[2] Non è così per esempio nei geroglifici, dove si afferma una scrittura di tipo bustrofedico in cui si alternano i due sensi opposti di destra e sinistra, o ancora nell’alfabeto arabo che si scrive e legge da destra a sinistra. O per parlare dei modi di lettura si potrebbero citare i manga giapponesi che notoriamente vanno cominciati dall’ultima pagina.

2 poesie contro l'AIDS - Michael Lassell e Adrienne Rich

1 Dicembre, Giornata Mondiale contro l'AIDS
È da un po’ di tempo che mi occupo della tematica dell’AIDS, in particolare in ambito artistico-letterario, e più nello specifico dell'America degli anni 80.
Dal punto di vista storico e sociale, credo che sia stato uno degli eventi che più hanno segnato la fine del ventesimo secolo, portando ancora una volta alla ribalta l’indifferenza, il silenzio e il disprezzo di cui sono capaci gli uomini.
L’America degli anni 80 è quella in cui Jesse Helms si schiera in senato contro gli artisti controversi per tagliare loro i fondi federali, che sia il blasfemo Andres Serrano con il Piss Christ o il “pedofilo” sadomasochista Mapplethorpe con opere che possono variare dall’innocente coppia di bambini Honey and Rosey al fisting di Helmut and Brooks. È lo stesso periodo in cui Reagan si chiude nel suo silenzio, lasciando a se stessi i colpiti dal virus, senza cercare soluzioni o aiutare la ricerca farmaceutica. Basti pensare che quando fu sviluppato il primo farmaco contro l’HIV, il celebre AZT, in mancanza di una legislazione adeguata, la FDA (Food and Drug Administration) fu costretta a cedere i diritti di vendita ad un’azienda privata: la multinazionale Borroughs Wellcome, che si mise a vendere il farmaco a prezzi così alti che quasi nessun malato poteva permetterselo. La nascita di un conseguente mercato nero, e i rischi che esso comportava, è un fatto quasi ovvio e al tempo stesso gravissimo.
Nel volgere di pochi anni a partire dallo scoppio dell’epidemia (1981), l’AIDS stravolse milioni di vite, in particolare nelle grandi metropoli come Los Angeles, San Francisco e New York (“But by 1985, AIDS changed New York”, dirà Keith Haring). L’ignoranza e la mancata comprensione della natura del virus portarono a vedere gli omosessuali come le vittime principali e al tempo stesso il caprio espiatorio cui addossare tutta la colpa. Le campagne omofobiche e le discriminazioni a oltranza che seguirono denotano ancora oggi uno dei tratti salienti nella storia dell’epidemia e la sensibilizzazione verso questi argomenti è la base su cui debbono costruirsi le campagne di prevenzione.  
Oggi, 1 Dicembre, è la giornata mondiale contro l’AIDS.  Per celebrarla ho deciso di proporre due poesie: “How to watch your brother die” di Michael Lassell e “In Memoriam D.K.” di Adrienne Rich.
Entrambe sono contenute nell’antologia “Poets for life: seventy-six poets respond to AIDS” curata da Michael Klein nel 1989, in piena epoca attivista. Il libro, forte degli illustri poeti americani che avevano contribuito alla sua realizzazione, vinse anche il premio Lambda Book Award, per essere riuscito a cogliere pienamente il segno umano della malattia. Leggerlo ancora oggi mette i brividi.  “Communities make difference” recita lo slogan della giornata mondiale contro l’AIDS, qual miglior modo allora di celebrare le comunità impegnate nella lotta se non con un libro nato in seno ad esse?

He kills me, Donald Moffett, 1987. Metropolitan Museum of New York.
"He kills me...", Reagan mi uccide: con il suo silenzio...

Come guardare tuo fratello morire, di Michael Lassell.

Quando la chiamata arriva, mantieni la calma.
Di' a tua moglie, "Mio fratello sta morendo.
Devo prendere un aereo per la California".
Prova a non rimanere scioccato che lui somigli già ad un cadavere.
Di' al giovane uomo che siede al suo fianco,
"Sono suo fratello".
Prova a non rimanere scioccato quando il giovane uomo dice,
"Sono il suo fidanzato. Grazie per essere venuto."

Ascolta il dottore con una faccia impassibile.
Firma i moduli necessari.
Di' al dottore che ti prenderai cura di tutto.
Immagina perché i dottori siano così distaccati.

Guarda gli occhi del suo amato fissare
gli occhi di tuo fratello come si fissa il vuoto.
Immagina cosa ci vedano lì dentro.
Ricorda del tempo in cui era geloso
e ti aprì le sopracciglia con uno spillo.
Perdonalo ad alta voce
anche se non ti può sentire.
Realizza che la cicatrice
sarà l'unica cosa che ti rimarrà di lui.

Durante un caffè nel bar dell'ospedale
Di’ al suo amato, "Sei davvero un bell'uomo".
Ascoltalo rispondere,
"Non avrei mai pensato di essere
abbastanza bello da meritare tuo fratello".

Guarda le lacrime scendere dai suoi occhi.
Di', "mi dispiace. Non so cosa significhi
amare un altro uomo".
Ascoltalo rispondere,
"è come con una donna, solo l'impegno
è maggiore perché le avversità saranno molto più grandi."
Non dire nulla, ma prendigli la mano come un fratello.

Guida fino in Messico per delle medicine non testate
che potrebbero aiutarlo a vivere più a lungo.
Spiega cosa siano alla guardia di frontiera.
Senti la rabbia assallirti quando ti informa,
"Non puoi portare queste cose dall'altra parte".
Comincia a diventare insistente.
Senti la mano dell'amato sulle tue braccia
che ti stringono. Guarda negli occhi della guardia
quanto un uomo possa odiare un altro uomo.
Chiedi all'amato, "Come puoi sopportare tutto questo?"
Ascoltalo rispondere, "Ci fai l'abitudine."
Pensa ad uno dei tuoi figli che si abitua
all'odio di un altro uomo.

Chiama tua moglie al telefono. Dille,
"Non gli rimane molto tempo.
Sarò a casa presto". Prima di riattaccare dici,
"Come può qualsiasi impegno essere più forte
di quello tra marito e moglie?". Ascoltala rispondere,
"Per favore. Non voglio sapere tutti i dettagli".

Quando lui cade in un coma irreversibile,
stringi il suo amato fra le tue braccia mentre singhiozza,
poiché non sarà mai più forte. Immagina per quanto tempo
riuscirai tu ad essere forte.
Senti come ci si sente a stringere un uomo fra le tue braccia
le cui braccia sono abituate a stringere altri uomini.
Offri a Dio qualsiasi cosa per ridarti indietro tuo fratello.
Sappi già che non c'è niente che Dio possa volere.
Maledici Dio, ma non abbandonarLo.

Fissa l'impresario delle pompe funebri
quando ti dice che non imbalsamerà la salma
per paura del contagio. Lascia che veda nei tuoi occhi
quanto un uomo possa odiare un altro uomo.


Rimani dietro una bara coperta di fiori,
fiori bianchi. Di’,
"Grazie per essere venuto," a ciascuno dei settecento uomini
che fanno la fila in lacrime, alcuni tenendosi per mano.
Sappi che la vita di tuo fratello non è quella che immaginavi.
Origlia due persone dire, "immagino chi sia il prossimo" e
"Non mi interessa più niente
purché non si tratti di te".

Sistema le tue cose per un volo presto a casa.
Il suo amato ti guiderà all'aeroporto.
Quando il tuo volo viene annunciato di',
imbarazzato, "se posso fare qualunque cosa per te,
per favore, fammi sapere". Non sobbalzare quando lui risponde,
"Perdona te stesso per non averlo voluto conoscere
dopo che lui te l'ha detto. Lui lo ha fatto".
Fermati e assesta il colpo. Di',
"Mi ha perdonato o si è conosciuto?"
"Entrambi", l'amato dirà, non sapendo che altro fare.
Stringilo come un fratello mentre ti bacia sulla guancia.
Pensa che non sei più stato baciato da nessun uomo
dopo che tuo padre è morto. Pensa,
"non è questo il momento per essere forti".

Vola in prima classe e bevi Scotch. Tocca
il tuo sopracciglio mozzato con un dito
e pensa a tuo fratello da vivo. Sorridi
in suo ricordo e pensa
come i tuoi bambini si sentiranno nelle tue braccia
calorose e amichevoli e senza sfide."

 
Silence = Death, David Wojnarowicz e Andreas Sterzing, 1989. PPOW Gallery, New York.
"Silence = Death" è lo slogan della coalizione ACT UP che lotta per sensibilizzare le persone sul tema. David Wojnarowicz, arrabbiato per l'indifferenza del governo americano, decide di cucirsi la bocca.

In Memoriam D.K., Elegia per David Kalstone, di Adrienne Rich
“Un uomo che cammina per strada
si sente malato, si è sentito malato
tutta la settimana, un po'...
ancora i fiori riempiono
i vasi all'angolo: anemoni non ancora sbocciati:
lui sa che si apriranno
rossi, viola, rosa, gialli
fino in fondo ai loro nuclei di velluto.
I fiori appesi allo steccato, delle fucsia,
che si aprono con tutti i loro petali, brulicanti di vita.
Lui che è stato felice più spesso che triste,
inconscientemente felice,
bene più spesso che male,
uno dei fortunati sta pensando alla morte
e alla sua musica, alla poesia,
alle sue traduzioni nella vita...
E a che servirà per te andare a casa e mettere il Requiem di Mozart?
Leggere Keats? Come ti curerà la cultura?
Povera, infelice, malata cultura, cosa può essa cantare o dire di qui a sei settimane, per te?

Dammi la tua mano viva...
Se potessi prendere l'ora che la morte ha messo dentro di te,
non dichiarata, non nominata
- anche se, caro, se potessi prendere quell'ora
con le mie pinze, strapparla via come un mostro
estrarla con violenza dalla tua carne,
dissolvere la sua forma nella calce viva
e farti sentire di nuovo meglio
no, non di nuovo
ma ancora..."


Ignorance = Fear, Keith Haring, 1989.
Poster per la coalizione ACT UP, per combattere il silenzio e la paura che seguono l'epidemia di AIDS.

Hervé Guibert: La morte propaganda (1977)


“Il mio corpo, per effetto del piacere o del dolore, si ritrova sempre in uno stato di teatralità, di parossismo, che mi piacerebbe riprodurre in qualche modo: attraverso la fotografia, un film, una colonna sonora.
Non appena interviene una deformazione, non appena il corpo si isterizza, vorrei mettere in opera un dispositivo di trascrizione: eruttazioni, deiezioni, sperma prodotto dalle masturbazioni, diarree, sputi, catarri della bocca e del culo. Ingegnarmi a fotografarli, a registrarli. Lasciar parlare questo corpo scosso dalle convulsioni, maciullato, urlante. [...]
Il mio corpo è un laboratorio che apro al pubblico come uno spettacolo, unico attore, unico strumento dei miei deliri organici”



Questo è il secondo post che ho deciso di dedicare all’opera di Hervé Guibert (per il primo, clicca qui), un autore che purtroppo in Italia è poco conosciuto e tradotto, ma che in Francia è regolarmente edito e distribuito.
Parleremo oggi della sua opera prima: “La mort propagande”, pubblicata a soli ventidue anni nel 1977 presso l’editore Régine Deforges e riedita presso lo stesso nel 1991 con alcune piccole modifiche.
In Italia il libro è uno dei pochi tradotti e lo si può trovare in una piccola libreria a Napoli, la “Libreria Dante & Descartes” a Piazza del Gesù Nuovo.



In quest’opera Hervé mette in scena la propria morte, un po’ come aveva fatto Caravaggio nel suo Davide e Golia.
E non è mica facile immaginarsi morti, visualizzare il proprio cadavere, la propria testa mozzata!
Caravaggio ci era riuscito in maniera magnifica, rappresentando l’atroce urlo della morte con un realismo al tempo ancora inedito.

Caravaggio, Davide con la testa di Golia (1610 ca), olio su tela, Galleria Borghese (Roma).
Si dice che Caravaggio, probabilmente condannato a morte, inviò quest'opera al cardinale Borghese per esortarlo a intercedere per lui concedendogli la grazia per un'omicidio commesso. L'autoritratto del pittore nella testa di Golia sarebbe stato quindi un modo eloquente per spingere il cardinale alla commozione e alla pietà.

Anche Hervé a modo suo, lui, uno degli inventori della cosiddetta autofiction, lo fa con cinica meticolosità.

“Nella notte fra il 6 e il 7 marzo 19…, H.G. venne trovato morto al centro della sua camera in disordine, immerso nel suo stesso sangue. La morte l’aveva zittito per sempre.
Il suo petto era stato compresso fino a fargli uscire il cuore dalla gola, fino a farglielo rigettare. Era stato tagliato a strisce e strati di pelle, successivamente messi in esposizione, inchiodati sui muri della camera. Quindi, le sue ossa erano state fatte bollire in una grande marmitta di latta così da ottenere diverse gelatine in seguito colorate e inventariate.”
Hervé descrive tutto della sua morte: il suo corpo, parabola di una vita che si apre e si chiude intorno ad esso, è espresso nelle sue mutevoli sfaccettature.

Ogni secrezione, ogni singola sostanza prodotta, Hervé la mette sul tavolo, la studia, l’analizza con termini quasi scientifici, stendendola nuda e cruda sul banco come in una vivisezione alla dottor Tulp.

Magnificazione di tutto quello che un corpo è e può fare nella sua costituzione e nei suoi limiti.
Perché, alla maniera platonica, tutto passa attraverso di esso, tutte le emozioni più forti che sono fonte di vita. Tant’è che in una delle sue opere postume, nel diario d’ospedale “Cytomégalovirus”, il nostro Hervé, ormai annullato dalla sieropositività, dirà: “quando ritrovo un’emozione erotica, è un po’ di vita che ritrovo in questo bagno di morte”.
La sessualità, le pulsioni, i desideri erotici, le fantasie più sfrenate, sono tutte queste cose che si celano dietro il mistero del corpo che cerca incessantemente il contatto dell'altro, questione di chimica, di atomi.
Un corpo che allo stesso tempo è potenzialmente una scarica di piacere elettrico alla maniera whitmaniana ma anche una discarica di tossicità con la sua interminabile serie di difetti di fabbrica, muchi, merda, piscio, ecc... Un corpo nato per il piacere ma destinato al deperimento, alla decomposizione.

C’è stato chi ha definito questo genere di opera “existential thanatography”, ovvero analisi esistenziale della morte. “Uno dei compiti della letteratura è l’apprendimento della morte” diceva il nostro scrittore.
“Mi ero proprio messo a scrivere dei testi violenti di dissezione di corpi; ero molto ossessionato all’epoca dall’arte anatomica, tutto ciò che girava intorno alla morte; l’obitorio, i cadaveri. Vivevo lì dentro. Una passione estetica, una passione da voyeur, da collezionista. Mi sembrava molto vivo. Dei testi violenti in cui le scene erotiche e gli atti di dissezione venivano raccontati come delle azioni amorose.”


Le fotografie che corredano l'articolo non sono affatto casuali.
Si tratta di scatti realizzati dallo stesso Hervé Guibert in vari musei anatomici, tra cui il Museo delle cere Grévin e la Specola di Firenze. Fotografie esposte al pubblico l'anno scorso in occasione della mostra "les Palais des monstres désirables" alla galleria parigina "Les Douches".

Scattate alla fine degli anni '70, esse hanno qualcosa di premonitore.
Commenta infatti Christine Guibert, organizzatrice della mostra e sua moglie fino alla morte: "In ogni caso, Hervé ha sempre pensato che sarebbe morto giovane e intorno a lui lo pensavamo tutti. La sensazione che tanta giovinezza trionfante, talentuosa, tanta bellezza, non potesse durare. Dava sempre l'impressione di negoziare con la morte un po' di tempo in più per fare un'opera. In quindici anni è riuscito a produrre un'opera considerevole, ma che resta opera giovanile poiché morto a 36 anni. Sapeva che il suo tempo era contato. Ma per tornare all'ossessione della morte, a questi corpi smembrati presenti nelle foto di quest'esposizione, non bisogna dimenticare che suo padre, che era stato ispettore veterinario, lavorava nei macelli e rientrava a casa con il camice sporco di sangue. Ciò disgustava Hervé ma lo affascinava anche".






C’è qualcosa di lucido e delirante allo stesso tempo in questo libro, qualcosa che richiama il grande Rimbaud della “Stagione all’inferno”. Nella sua frammentarietà, nei suoi pezzi di carne triturati e messi in vetrina, spettacolarizzati, Hervé Guibert racconta la vita, ce la restituisce nella sua parte più sotterranea attraverso una scrittura automatica e quasi meccanica, che scorre libera sotto la penna giocando per associazioni dirette, senza eufemismi, senza mezzi termini.  

Concludo l'articolo, sperando di avervi incuriosito e spinto a leggere il libro, con un'ultima citazione:
"Dopo questa serie di espressioni, il travestimento estremo, l'ultimo trucco, la morte. La imbavagliamo, la censuriamo, tentiamo di annegarla nel disinfettante, di soffocarla nel ghiaccio. Io voglio invece che alzi la sua voce potente e che canti, come una diva, attraverso il mio corpo. Sarà la mia unica partner e io il suo interprete. Non voglio ignorare questa fonte di spettacolarità immediata, viscerale.
Intendo darmi la morte sulle scene, davanti alle telecamere. Rappresentare uno spettacolo estremo, eccessivo del corpo mentre muore. Sceglierne i termini, i tempi, lo svolgimento, i dettagli. [...]
Nessun effetto speciale, nessuna presunzione. Un corpo vero, il mio vero sangue. Prendete e mangiate, bevete (la mia paranoia, la mia megalomania). Lo svuoterò con furore ed ebbrezza (il sangue caldo dell'eroina gonfierà le vene), lo dissanguerò, lo farò scoppiare come un sacco.
Il pubblico sarà in preda a convulsioni, spasmi, moti di repulsione, erezioni, vibrazioni, piaceri, vomiti di ogni sorta. Questo corpo comune a tutti si metterà a parlare. [...]
Chi mai vorrà riprodurre il mio suicidio, questo capolavoro di sicuro effetto? Chi vorrà filmare l'iniezione che provoca la morte più lenta, il veleno che penetra con un bacio, colando da una bocca all'altra (il mio nome è Fatalità)?"


Boileau invidia Molière?


Oggi parliamo di un poeta del XVII secolo: Nicolas Boileau-Despréaux (1636 – 1711), conosciuto semplicemente come Boileau o, talvolta, Despréaux (vedi per esempioVoltaire nell’epistola ad Orazio).
Siamo nel 1666, allorché Boileau pubblica le sue celebri “Satire”, a pochi anni dalla morte del cardinale Mazzarino (1661) e quindi nel momento di ascesa definitiva di Luigi XIV e del suo assolutismo monarchico. Quello che in Italia si chiama secolo barocco, in Francia sarà il “Grand Siècle”, soprannominato “période classique”.
Secolo classico perché gli scrittori sono poi divenuti classici … chi non conosce la triade somma degli autori teatrali francesi: Corneille, Racine e Molière?
E classico perché dominato dal classicismo, nei temi (si pensi a Fedra, Britannico, Andromeda, ecc… tutte opere basate su un repertorio propriamente classico), ma anche nella forma; più che la stravaganza e l’immaginazione barocca, a dominare la scena è la razionalità, il gusto per la simmetria, l’ordine, la regola (e di conseguenza, la censura).
Il 600 francese è anche il secolo delle dispute letterarie, le cosiddette “querelles”, e così c’è una querelle per il Cid di Corneille, una querelle per “L’école des femmes” di Molière, una querelle per la doppia “Phèdre” di Racine e Pradon (chi ha copiato chi?). Ad ogni opera teatrale rappresentata corrisponde una lotta fra i suoi sostenitori e detrattori ed è la critica letteraria a farla da padrone.
Ogni pretesto è buono, a partire dalle unità aristoteliche (tempo, luogo e azione), per non parlare poi della regola di non mischiare fra loro i generi teatrali (es. il Cid di Corneille è una tragi-commedia, perciò messa sotto accusa), o ancora quella di rispettare la verosimiglianza, e poi ancora il pubblico decoro, ecc…
Insomma, questi beneamati autori del XVII secolo tenevano molto alle regole, ed erano pertanto ligi e intransigenti. Questa loro inclinazione impregnerà le lettere nazionali fino al Romanticismo, tant’è che basterà a Bizet mettere in scena davanti al pubblico la morte della gitana Carmen per suscitare uno scandalo eclatante.
Il nostro Boileau in particolare, si scervellava sul problema della versificazione, tanto da meritarsi, non a caso, il soprannome di “legislatore del Parnaso”.
“La rima è una schiava, e deve obbedire”, scriverà nella sua “Art poétique”.
Un problema, quello della rima, che per chi è del mestiere rappresenta un grande ostacolo, e che ogni poeta a modo suo deve risolvere. Solo gradualmente gli autori conquisteranno la facoltà di poter usare il verso sciolto (ovvero senza rima).
"Per esserti più caro egli ha scosso il giogo della servile rima, e se ne va libero in Versi Sciolti" già scriveva il Parini nel 1763. E nel 1971 Montale poneva fine all'annoso, secolare, per poco millenario problema decretando "Le rime sono più noiose delle Dame di San Vincenzo", mettendole, per così dire, non senza qualche riguardo, alla porta.
Aggiungeva poi, ironico: "prima o poi (rime e vecchiarde) / bussano ancora e sono sempre quelle".
Ma qui siamo nel “lontano” XVII secolo, e nel XVII secolo delle rime non si può proprio fare a meno. Persino i drammaturghi e i commedianti scrivevano in rima le loro opere teatrali. 
La rima, lo ripetiamo, per Boileau è una schiava, e deve obbedire!
Una schiava talvolta ribelle, che detta a sua volta severe leggi, e di cui il nostro legislatore del Parnaso, messo sotto schiaffo, si lamentava seccato.

La satira che ho scelto da leggere in questo articolo parla proprio di questo. Fu la seconda scritta da Boileau, nel 1664, dedicata a Molière, il celebre commediografo.
SATIRA II.
1664.

A MOLIERE
ACCORDO DELLA RIMA E DELLA RAGIONE
Spirito raro e famoso, la cui fertile vena
Scrivendo ignora la fatica e la pena;
per cui Apollo tiene i suoi tesori aperti
e che sai con quale conio si fanno i buoni versi,
nelle battaglie di spirito sapiente maestro di scherma,
insegnami, Molière, dove tu trovi la rima.
Si direbbe, quando tu vuoi, che lei ti venga a cercare.
Mai alla fine di un verso ti abbiamo visto protestare
e, senza che un lungo periodo ti arrestasse o ostacolasse,
bastava tu parlassi ed era lei stessa che ci si piazzava.
Ma a me, che per un vano capriccio, un bizzarro umore,
per i miei peccati, credo, lei* fece diventare rimatore, (*la rima, ovviamente)
in questo rude mestiere il mio spirito si uccide,
invano, per trovarla, io fatico e sudo.
Spesso ho un gran bel da fare giorno e notte,
quando voglio dire bianco, la scontrosa dice nero.
[…]
Infine, qualsiasi cosa faccia o voglia fare,
la bizzarra sempre viene a offrirmi l’opposto.
Con rabbia qualche volta, non potendo trovarla,
triste, stanco e confuso, smetto di pensarci
e, maledicendo venti volte il demonio che m’ispira,
faccio mille giuramenti di non scriver mai più.
Ma, dopo aver maledetto sia le Muse sia Febo,
io la vedo apparire quando non ci pensavo nemmeno più;
e così, mio malgrado, tutta la mia fiamma si riaccende;
riprendo sul campo la carta e la piuma,
e, perdendo il ricordo dei miei vani giuramenti,
attendo di verso in verso che lei si degni di venire.
 […]
Con tutte queste belle parole, spesso messe alla rinfusa,
potrei agevolmente, senza genio né arte,
spostando cento volte e il nome e il verbo,
nei miei versi ricuciti fare a pezzi Malherbe (*poeta tardo-rinascimentale)
ma il mio spirito, tremando sulla scelta delle parole,
non ne dirà mai una, senza che essa cada a puntino.
E non saprebbe penare a meno che una frase insipida
venga alla fine di un verso a riempire il vuoto;
così ricominciando un’opera venti volte,
se scrivo quattro parole, ne cancellerò tre.
Sia maledetto il primo la cui verve insensata
sul limitare del verso nascose il suo pensiero
e dando ai versi una stretta prigione
volle con la rima incatenare la ragione!
 (*qui Boileau maledice chi ha inventato la rima che nella metrica greca e latina non esisteva)
Senza questo mestiere fatale nel riposo della mia vita,
i miei giorni, pieni di libertà, scorrerebbero senza capriccio
non avrei che da cantare, ridere, bere
e, come un grasso canonico, con benessere e gioia,
passare tranquillamente, senza cura, senz’occupazione,
la notte a ben dormire, e il giorno nel dolce far nulla.
Il mio cuore, privo di angosce, libero da passione,
saprebbe dare un limite alla propria ambizione,
e fuggire delle grandezze la presenza molesta.
[…]
E sarei felice se, per consumarmi,
un destino invidioso non mi avesse fatto rimare,
ma dal momento che questa frenesia
con i suoi neri vapori turbò la mia fantasia,
e che un demone geloso del mio godimento
m’ispirò il disegno di scrivere correttamente,
tutti i giorni mio malgrado, incollato ad un’opera,
ritoccando un punto, tagliando una pagina,
insomma trascorrendo la mia vita in questo triste mestiere,
io invidio, scrivendo, la sorte di Pelletier.
(*Pelletier, poeta di scarsa qualità, non c’era un giorno in cui non scrivesse un sonetto. Prese la satira di Boileau come un elogio e la fece riportare in tutte le sue opere)
Ben felice Scudéri, la cui fertile piuma
può tutti i mesi senza sforzo concepire un volume.
I tuoi scritti, è vero, senza arte né languore,
sembrano esser fatti a dispetto del buon senso,
ma se essi trovassero, checché se ne possa dire,
un mercante per venderli e dei fessi per leggerli,
visto che la rima si trova alla fine del verso
che importa se il resto ci si è messo di traverso?
Maledetto mille volte colui la cui mania
volle alle regole dell’arte asservire il suo genio,
un fesso, scrivendo, fa tutto con piacere,
non ha nei suoi versi l’imbarazzo della scelta
e, sempre innamorato di ciò che ha appena scritto
rapito dallo stupore lui stesso si auto-ammira.
Ma uno spirito sublime che invano vuol elevarsi
a questo grado di perfezione, non cessa di cercare
e, sempre scontento di ciò che ha appena fatto,
piace a tutti e ancora non saprebbe piacersi.
[…]
Tu allora, che vedi tutti i mali dove la mia musa di inabissa,
di grazia insegnami l’arte di trovare la rima;
o poiché infine le tue angosce ci sarebbero superflue,
Molière, insegnami l’arte di non rimare più.

Ebbene sì, Boileau invidiava Molière.
Ora, sia chiaro, la maggiorparte dei critici sono propensi nel ritenere l’invidia di Boileau una vera e propria ammirazione nei confronti del suo amico e collega. Ma non manca chi invece tende a sottolineare l’ambiguità di un testo in cui con falsa modestia un grande poeta si rivolge ad un altrettanto valido versificatore. In particolare ricordiamo Pierre Louÿs e la sua cerchia di intellettuali che verso la fine dell’800 lo lessero in maniera ironica, proprio a partire dal genere trattato: la satira.
Boileau, dal canto suo, è diretto, confessa suo malgrado di non riuscire sempre a scrivere buoni versi e di andare a tentoni … spesso rinunciando per poi riprendere il lavoro in un secondo momento.
Mi ha ricordato un po’ Orazio che in una sua satira diceva di Lucilio: “Eccolo, in un’ora, come fosse gran cosa, dettava sovente 200 versi, e reggendosi su un piede soltanto. Siccome scorreva fangoso (lutulentus), c’erano cose che avresti voluto levare; era ciarliero e insofferente della fatica di scrivere, di scrivere bene…”
Per i poeti del tempo scrivere velocemente era sintomo di immaturità poetica e di superficialità, come evidenzia appunto Boileau facendo l’esempio di Pelletier. La poesia è una cosa posata, soppesata, sedimentata. E sotto il peso della ragione la rima deve essere effetto di un’attenta lima.
Ma se volessimo descrivere il rapporto che intercorre fra Boileau e Molière, non è affatto cosa facile.
Facciamo un passo indietro, ad esattamente un anno prima, nel 1663.
All’indomani della rappresentazione della discussa “école des Femmes” di Molière, il nostro Boileau scrive queste stanze:

Invano mille gelosi spiriti,
Molière, osano con disprezzo
censurare la tua più bella opera:
(*in realtà Molière è ancora all’inizio della sua carriera)
la sua incantevole ingenuità
andrà per sempre, di anno in anno,
a divertire la posterità.

Che tu ridi piacevolmente!
Che tu scherzi saggiamente!
Colui che seppe vincere Numanzia,
che mise Cartagine sotto la sua legge,
mai sotto il nome di Terenzio,
sepp’egli meglio scherzare di te?
(*si riferisce a Scipione Emiliano che si dice scrivesse le commedie al posto di Terenzio, che invece fungeva da prestanome)

La tua musa con utilità
dice piacevolmente la verità:
ciascuno approfitta della tua Scuola:
(*riferimento al titolo “L’école des femmes”)
tutto in lei è bello, tutto è buono,
e la tua parola più burlesca
vale spesso più di un dotto sermone.

Lascia stare gli invidiosi:
egli hanno ben da gridare ovunque
che invano tu edulcori il volgare,
che i tuoi versi non hanno niente di piacevole.
Se solo tu sapessi un poco meno piacere alla gente,
non gli dispiaceresti poi così tanto.

Ci sarebbe ancora molto di cui discorrere ma per non appesantire l’articolo preferisco chiuderlo qui.
Lascio aperta la domanda: Boileau invidia Molière?