Il narcisismo di Gustave Courbet



Chissà perché del narcisismo di Courbet se ne parli poco, d’altronde in un’era esibizionista come la nostra potrebbe essere di buon esempio … 
L’unica spiegazione che potrei darmi è il fatto che la cultura ormai sia démodé, altrimenti non si spiegherebbe.
Fatto sta che una parte del fascino di quest’artista sta proprio in questo. 
Nei suoi numerosi autoritratti, che riporto qui sotto, si può ben notare com’egli amasse rappresentarsi in un certo modo, con lo sguardo ieratico, dall’alto in basso, gli occhi spesso persi nel vuoto o qualche volta spalancati in un'espressione scioccante o scioccata… Interessante anche la figura del cane nero presente in due autoritratti giovanili, no, non è Sirius Black, ma chissà se magari avesse un significato recondito nella mente del pittore. Sciagura? Oscurantismo? Satanismo? Zoofilia?
Non saprei. 













Questo ritratto ha un chiaro riferimento ad un autoritratto di Parmigianino, che riporto sotto.


Parmigianino
Autoritratto di Parmigianino



Tutti questi quadri dimostrano, come già detto in precedenza, l'indole narcisistica di Courbet ma non va dimenticato per avere una chiara comprensione del personaggio e delle sue opere che prima di ogni cosa Courbet amava provocare. Non a caso aprì un padaglione costruito da lui stesso, di fronte alla sede del Salon ufficiale e lo intitolò "Du réalisme".
A tal proposito basti citare "L'origine du monde", opera che ha scandalizzato la Francia del Secondo Impero e che in alcuni casi continua ancora a scandalizzare.
L'origine del mondo

E, aggiungerei, anche se non è di Courbet, un'opera ancora più provocatoria di questa: l'origine de la guerre.
L'origine de la guerre

"La Luna" di Théodore de Banville

Riporto oggi una bellissima poesia di Théodore de Banville che ho tradotto recentemente. Parla dell'astro più romantico di sempre, che tanto ha fatto cantare i nostri amati poeti: la luna. Descritta come un'amante frivola che gioca spesso su due fronti opposti, essa diventa per il poeta una passione ardente.

Avec ses caprices, la Lune
Est comme une frivole amante;
Elle sourit et se lamente,
et vous fuit et vous importune.

La nuit, suivez-la sur la dune,
Elle vous raille et vous tourmente;
Avec ses caprices, la Lune
Est comme une frivole amante.

Et souvent elle se met une
Nuée en manière de mante ;
Elle est absurde, elle est charmante ;
Il faut adorer sans rancune,
Avec ses caprices, la Lune.
Con i suoi capricci, la Luna
è come un'amante frivola,
lei sorride e si lamenta,
e vi sfugge e vi importuna.

La notte, seguitela sulla duna,
essa vi prende in giro e vi tormenta;
con i suoi capricci, la Luna
è come un'amante frivola.

E spesso si mette una
nube a mo' di mantello;
lei è assurda, è affascinante,
bisogna amare senza rancori,
con i suoi capricci, la Luna.

La malinconia di Chateaubriand





Oggi voglio ricreare l’atmosfera pre-romantica e autunnale che respirava Chateaubriand all’inizio dell’Ottocento.
Catapultiamoci nell’autobiografia dell’autore con “Le memorie d’oltretomba”.


Questo delirio si protrasse per due interi anni, durante i quali le facoltà dell'animo mio giunsero all'acme dell'esaltazione. Parlavo già poco, finii per non parlare più; prima almeno studiavo: ora invece buttai via i libri; il mio gusto della solitudine aumentò. Avevo tutti i sintomi di una violenta passione: gli occhi mi si incavarono; dimagrivo, non dormivo più, ero distratto, triste, ardente, intrattabile.
Trascorrevo il tempo in modo selvaggio, bizzarro, insensato, ma pieno di voluttà.
C'era a nord del castello una landa disseminata di pietre druidiche; al tramonto andavo a sedermi su una di queste pietre. La cima dorata dei boschi, lo splendore della terra, la stella della sera che brillava attraverso le nuvole rosa, mi riconducevano ai miei sogni: avrei voluto poter godere di quello spettacolo con l'oggetto dei miei desideri. Seguivo col pensiero l'astro del giorno: gli affidavo la mia beltà perché la presentasse con sé, radiosa, a ricevere gli omaggi dell'universo. [...]
Altre volte seguivo un sentiero abbandonato, corsi d'acqua delimitati da piante acquatiche, ascoltavo le voci che escono dai luoghi solitari, ad ogni albero porgevo l'orecchio: mi pareva di udire il chiaro di luna cantare nei boschi: avrei voluto rievocare quelle delizie e le parole mi morivano sulle labbra. Non so dire come ritrovassi la mia dea anche nelle vibrazioni di una voce, nei fremiti di un'arpa, nei suoni limpidi o vellutati di un corno o di un'armonica.
Sarebbe troppo lungo descrivere i bei viaggi che facevo col mio leggiadro amore; dire come abbiamo visitato insieme, mano nella mano, le rovine illustri, Venezia, Roma, Atene, Gerusalemme, Menfi, Cartagine; [...]
Più la stagione era triste e più s'accordava col mio stato d'animo. Poiché la stagione del gelo rende più difficili le comunicazioni, gli abitanti della campagna restano isolati: ci si sente meglio al riparo dagli uomini.
Un carattere meditativo si affeziona ai paesaggi autunnali: le foglie che cadono come gli anni, i fiori che appassiscono come le ore, le nuvole che fuggono come le nostre illusioni, la luce che si affievolisce come la nostra intelligenza, il sole che si raffredda come i nostri amori, i fiumi che si popolano di ghiacci come la nostra vita, hanno segrete analogie con i nostri destini.
(Memorie d'oltretomba, libro III)
Traduzione di Eva Timbaldi Abbruzzese, per la versione originale clicca qui



Immaginiamocelo per un attimo questo poeta solitario che va a sedersi sulle pietre druidiche al tramonto o che segue sentieri solitari ascoltando il richiamo della natura. Si sente nelle sue parole una vaga onda di malinconia. Perché dico vaga e perché dico onda?
Lui stesso definiva la sua “malattia” con il termine “vague des passions”, letteralmente “onda delle passioni”. È il mal du siècle, un misto di sentimenti ed emozioni vaghe che portano ad uno stato di angoscia esistenziale, di inquietudine, di introspezione e d'incapacità ad agire.

A proposito dell’incapacità di agire, è lo stesso Chateaubriand a fornircene un esempio parlando di due anziane, amiche da sempre e che prima o poi sono costrette ad essere divise dalla morte. È la morte stessa, secondo il nostro pre-romantico, ad annullare il senso della vita e quindi a portarci ad un’immobilità. Tutto è effimero, a che serve vivere?


Questa impossibilità di durata e di continuità dei legami umani, questo oblio profondo che ci segue, questo invincibile silenzio che si impadronisce della nostra tomba e di là si estende sulla nostra casa, mi riconducono senza posa alla necessità dell’isolamento. Qualsiasi mano è buona per darci il bicchiere d’acqua di cui possiamo aver bisogno nell’arsura della morte. Ah! che essa non ci sia troppo cara! Perché, come abbandonare senza disperazione la mano che abbiamo coperta di baci e che vorremmo tenere eternamente sul nostro cuore?
(Memorie d’oltretomba, libro I)
Traduzione di Eva Timbaldi Abbruzzese, per la versione originale clicca qui

La vague des passions diventerà un topos del romanticismo.

« Si abita, con un cuore pieno, un mondo vuoto; e senza aver utilizzato nulla, siamo disillusi da tutto» dirà ancora Chateaubriand. È una sorta di sehnsucht, un insaziabile desiderio di qualcosa di indefinito, o come qualcuno ha detto "l'inconsolabile desiderio nel cuore dell'uomo per non si sa che cosa".
Il poeta avverte tutto questo e lo registra nelle sue memorie che non sono altro che un diario aperto sul senso dell’esistenza, una repentina serie di domande senza risposta.


Oggi ancora rimpiango le mie chimere senza più inseguirle, voglio risalire la china dei miei giovani anni: queste memorie saranno un tempio della morte edificato alla luce dei miei ricordi.
(Memorie d’oltretomba, libro I)
Traduzione di Eva Timbaldi Abbruzzese, per la versione originale clicca qui



Cos'hanno in comune Voltaire e Orazio?


  Oggi parleremo di due autori lontanissimi nel tempo, uno un illustre illuminista famoso per i suoi racconti con morale filosofica, l'altro un poeta dell’età augustea famoso per il motto “Carpe diem”.

 
Ma cos’hanno in comune?
Vediamolo subito con un brano tratto da Candide di Voltaire.

Pangloss, Candide e Martin, tornando alla piccola masseria, incontrarono un vecchietto che si rinfrescava alla sua porta sotto il pergolato d’aranci. Pangloss, che era tanto curioso quanto ragionatore, gli domandò come si chiamasse il muftì che era stato strangolato a Constantinopoli.
- Io non so niente, rispose il buon uomo, e non ho mai saputo il nome di alcun muftì né di alcun vizir. Ignoro assolutamente la faccenda di cui mi parlate; presumo che coloro i quali si immischiano negli affari pubblici qualche volta periscono miseramente, e se lo meritano; ma io non m’informo mai di ciò che accade a Costantinopoli; mi accontento di mandare a vendervi la frutta del giardino che coltivo.
Dopo aver detto tali parole, fece entrare i forestieri nella sua casa : le sue due figlie e i suoi due figli gli presentarono diverse qualità di sorbetti che producevano loro stessi, del kaimak riempito di scorze di cedrato candito, delle arance, dei limoni, dei cedri, degli ananas, dei pistacchi, del caffè di Moka che non era affatto il pessimo caffè di Batavia e delle isole. […]
- Voi dovete avere, disse Candido al turco, una vasta e magnifica terra.
- Io non ho che venti acri, rispose il turco; le coltivo con i miei figli, il lavoro ci allontana dai nostri tre mali: la noia, il vizio e il bisogno.
Candide, tornando alla sua villetta, fece delle profonde riflessioni sul discorso del turco.
Disse a Pangloss ed a Martin: - Quel vecchietto sembra essersi costruito una sorte ben preferibile a quella dei sei re con i quali abbiamo avuto l’onore di mangiare.
- Le grandezze, disse Pangloss, sono molto pericolose stando a quanto dicono i filosofi […]
- Io so ancora, disse Candide, che bisogna coltivare il nostro giardino.
- Voi avete ragione, ripeté Pangloss, poiché quando l’uomo fu piazzato nel giardino d’Eden vi fu messo ut operaretur eum, afffinché lavorasse; ciò prova che l’uomo non è nato per il riposo.
- Lavoriamo senza ragionare, disse Martin; questo è il solo modo per rendere la vita sopportabile.
Tutta la piccola società prese parte in quel lodabile disegno; ciascuno si mise ad esercitare i suoi talenti. […]
- Tutti gli avvenimenti sono concatenati nel miglior dei mondi possibili: poiché alla fine se voi non foste stato cacciato via dal castello per l’amore della signorina Cunégonde, se voi non foste stato messo all’Inquisizione, se non aveste corso l’America a piedi, se non aveste colpito il barone con una spada, se non aveste perduto tutti i vostri montoni del buon paese d’Eldorado, voi non mangereste adesso qui dei cedri canditi e dei pistacchi.
- Ben detto, rispose Candide, ma bisogna coltivare il proprio giardino.

(Candide, capitolo 30)
l'ho tradotto io, per la versione originale clicca qui

La morale di Voltaire, come si evince dal brano, è appunto quella del “il faut cultiver notre jardin”. Coltivare il proprio giardino vuol dire dedicarsi alle proprie passioni tenendo bene in conto i propri limiti, senza cedere a sogni irrealizzabili che poco tangono la nostra realtà quotidiana.
Con una sola frase il nostro Voltaire ci invita ad allontanarci “dalla noia, dal vizio e dal bisogno”.
È una morale dal sapore epicureo, un invito a vivere nascosti (Lathe biosas) per dedicarsi alle piccole cose che ci circondano. Per il vecchio turco non contano le notizie che circolano in città, poiché la morte di un muftì poco c’entra con la sua vita di campagna …



E qui entra in gioco Orazio, che pressoché aveva detto la stessa cosa!



“Ma sii saggia: filtra il vino,
e recidi la speranza
lontana, perché breve è il nostro
cammino, e ora, mentre
si parla, il tempo
è già in fuga, come se ci odiasse!
Così cogli
La giornata, non credere al domani”.
                          (Ode 11, libro primo)


La morale di Orazio ruota tutta intorno all’importanza del presente, è una continua esortazione a gioire di ciò che abbiamo ora e un ammonimento contro le “speranze lontane”, cose irrealizzabili che ci frenano dal vivere oggi. “Carpe diem” io lo tradurrei più che con “cogli l’attimo” in un vero e proprio “cogli la giornata”!

Ma, in particolare, invito a riflettere sul topos dell’angulus ridet che più di tutti si avvicina al giardino teorizzato da Voltaire.


“ – fosse Tivoli, che fondò un colono
Venuto d’Argo, il luogo della mia
Vecchiezza, il termine per me
Stanco di mare, e di guerra, e di strade!
Ma se le ingiuste Parche non vorranno,
cercherò l’acqua del Galéso, dolce
alle pecore avvolte nelle pelli,
e la campagna che regnò Falanto.
È l’angolo del mondo che mi ride.
Il suo miele contende con l’Imetto,
l’oliva con  Venafro tutta verde,
e offre Giove lunghe primavere
e tepori d’inverno: fecondo l’Aulon
invidia appena l’uva di Falerno”
                   (Ode 6, libro secondo)


Non vi evoca qualcosa il miele che gareggia con l’Imetto, l’oliva, l’uva, il vino, la campagna, l’angolo del mondo? Ma sì! è il kaimak del vecchio turco, la sua piccola masseria lontano da Constantinopoli, il suo “angolo di mondo” che è il giardino che coltiva con i suoi cari!!!

Ed ancora …



“La mia casa non ha
Soffitti scintillanti d’ori e avori,
né architravi d’Imetto
gravano su colonne
tagliate nella più lontana Africa; […]
C’è candore, da me; e una benevola
Vena di fantasia. L’uomo ricco
Viene a cercare il povero. […]
Mi basta la ricchezza

Di questa mia unica Sabina.”
              (Ode 18, libro secondo)



Ma al di là di tutti questi confronti che potrebbero sembrare castelli costruiti in aria, Voltaire come tutti gli uomini del suo tempo subì il fascino di Orazio che, ben oltre il ruolo di modello letterario, fu considerato l’emblema dell’honnête homme, il tipico uomo galante e dalle maniere raffinate che piace tanto alle corti a partire dal seicento (il secolo del Re Sole). Voltaire aveva dunque ben impressi nella memoria i versi e i motti del poeta augusteo, e fece delle sue massime di saggezza e dei suoi principi estetici un leitmotiv, tant’è che gli scrisse anche un’epistola nel 1772.
Orazio, come Voltaire d'altronde, fu sempre in bilico tra l'avvicinamento all'urbanitas, alla società dei cittadini per eccellenza, e al suo contrario, l'allontanamento tipico di correnti filosofiche come l'epicureismo.
Qualcuno ha detto che la sua poesia fu "l'abbeccedario dei saggi" dell'epoca, ovvero l'epoca delle corti sfarzose dei grands seigneurs, piene di débauche, sperpero e ipocrisia, anche se nel frattempo covavano già critiche al sistema all'interno di quelle stesse corti. Mi riferisco appunto ai philosophes, agli illuministi che pian piano riuscirono a ritagliarsi uno spazio di denuncia e ad aprire la strada alla rivoluzione francese e poi a tutta la fioritura delle democrazie.
La poesia oraziana era una preghiera laica per Voltaire che da buon deista detestava il fanatismo religioso e tutti i sermoni dei preti. L’unico sermone, l’unica morale che poteva accettare poteva essere quella oraziana.

Il discorso meriterebbe di ulteriori approfondimenti ma per non appesantire il post preferisco eventualmente di farli un'altra volta.

Concludo riportando dei versi dell’epistola ad Orazio del 1772 di cui parlavo prima.
Si coglie in questo lungo discorso l’intensità, la passione e la foga con la quale Voltaire immaginava di rivolgersi ad un suo maestro di vita. Egli riconosce nel poeta tutte le qualità che non riesce a trovare in una società frivola quale la corte di Luigi XIV che non aveva fatto altro che portargli casini o la corte di Federico II dove aveva vissuto per un periodo (tra il 1750 e il 1753) ma che aveva abbandonato per disdegno.


Ti scrivo oggi, voluttuoso Orazio,

a te che respirasti la mollezza e la grazia,
che, semplice nei tuoi versi e gaio nei tuoi discorsi,
cantasti i due piaceri: i vini e gli amori,
e conoscesti bene questa cara saggezza
che non ebbe mai da Quinault* il rivale scontroso. (*drammaturgo francese)
[…]
Venti secoli scesi nell’eterna notte
Ti hanno detto come tutto cambia, e per qualche strana sorte
L’alloro dei Traiani ha lasciato il posto alla tiara […]
Questo mondo, tu lo sai, è un quadro in movimento
Tanto gaio, tanto triste, eterno e nuovo.
L’impero dei Romani finì con Augustolo;
agli orrori della Fronda è successa la bolla:
tutto passa, tutto perisce, eccetto la tua gloria e il tuo nome.
È là la fortuna dei veri figli di Apollo:
i tuoi versi in ogni luogo sono citati di era in era.

[…] Noi abbiamo la chiarezza, il fascino, la giustizia;
ma eguaglieremo mai l’Italia e la Grecia?
È abbastanza in effetti una paga limpidezza
E non pecchiamo noi d’uniformità?
Tu hai saputo innalzare la tua lira a venti toni diversi […]


Cacciamo lontano da me tutti questi ratti del Parnaso;
gioiamo, scriviamo, viviamo, mio caro Orazio.
Ho già superato l’età in cui il tuo grande protettore,
avendo recitato il suo ruolo da eccellente attore
e sentendo che la morte assediava la sua vecchiezza,
volle che lo si applaudisse quando ebbe finito lo spettacolo*.
(*chiaro riferimento ad Augusto)
Ho vissuto più di te; i miei versi dureranno di meno.
Ma al bordo della tomba io concentrerò tutti i miei sforzi
Per seguire le lezioni della tua filosofia,
per disprezzare la morte assaporando la vita,
per leggere i tuoi scritti pieni di grazia e di senso,
come si beve un vino vecchio che ringiovanisce i sensi.

Con te si impara a soffrire l’indigenza,
a gioire saggiamente d’un’onesta opulenza,
a vivere con sé stessi, a servire i propri amici,
a prendersi gioco dei propri stupidi nemici,
a uscire da una vita o triste o fortunata,
rendendo grazia agli Dei d’avercela donata. […]

Quando la vecchia Atropo*, con gli umani così severa, (*una delle tre moire)
avvicinerà le sue forbici alla mia trama leggera,
lui ha visto di che aria prendo il mio commiato;
sa se il mio spirito, il mio cuore è stato cambiato.
Huber* mi faceva ridere con le sue pasquinate, (*pittore svizzero amico di Voltaire)
e sono entrato nella tomba al suono delle sue serenate.


Tu dovesti finire così. Le tue massime, i tuoi versi,
il tuo spirito giusto e vero, il tuo disprezzo per gli inferi,
tutto mi assicura che Orazio è morto da uomo onesto*
(*l’honnête homme di cui abbiamo parlato prima).
Qualsiasi cittadino moriva così a Roma.

[…]

Volendo riformare tutto, abbiamo perduto tutto.
Cosa allora! Un vile mortale, un ignorante falciato,
ai piedi del mio letto verrà, senza conoscermi,
gustando la mia debolezza e parlandomi da maestro!
Non sono io in diritto di abbassare il suo tono,
facendomi da solo un sermone più saggio?* (*si riferisce ai preti)
A chi si comporta bene predichiamo la morale:
ma è ridicolo nella nostra ora fatale
ordinare l’astinenza a chi non può mangiare.
Serviamoci bene del tempo*: lì sono le tue massime.
(*riferimento al carpe diem oraziano)

Caro Orazio, scusami se le traccio in rime;
la rima è necessaria ai nostri gerghi nuovi, (*qui Voltaire si scusa della propria maniera di fare poesia. La metrica classica è completamente diversa da quella moderna, in quanto la prima si basa sulla quantità delle sillabe, la seconda sugli accenti, e quindi sulle rime)
[…]

Dei bei versi pieni di senso il lettore è affascinato.
Corneille, Despréaux e Racine* hanno rimato. (*autori teatrali)
Ma io imparo che oggi Melpomene* propone (*musa della tragedia)
Di abbassare il suo coturno*, e di parlare in prosa. (*uno stivaletto antico)
(Epistola ad Orazio)
l'ho tradotta io, per la versione originale clicca qui